Una scelta che la dice lunga su quale redistribuzione di redditi e potere stia avvenendo in tutto l’Occidente, con il lavoro chiamato esplicitamente a pagare i costi di una crisi senza precedenti. Da cui non si può uscire – lo dice persino un tale Formigoni – in modo indolore. Esistono però diverse declinazioni verbali sul punto: la classe dirigente comincia a urlare ai meno abbienti “avete vissuto per troppo anni al di sopra dei vostri mezzi”. Dal basso si risponde “noi il debito non l’abbiamo fatto e non lo paghiamo”.
Basta ricordare che al fondo non c’è la questione del debito, comunque declinato, ma quella della “sovracapacità produttiva” (come dice Marchionne), ovvero della “sovraproduzione di capitale” (come diciamo noi). E non solo di merci.
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da “il manifesto” deel 6 ottobre 2011
Merkel padrona d’Europa
Tommaso De Berlanga
Il giorno dopo il clamoroso downgrade dell’Italia da parte di Moody’s le borse festeggiano, compresa quella italiana (+4%). Ma non c’è nulla di folle, in questo. Se non il fatto che il problema chiave del mercato finanziario – la tenuta delle banche a un eventuale default greco e/o di qualche altro paese Piigs – è stato «risolto» esattamente come tre anni fa: saranno gli stati a farsi carico della ricapitalizzazione degli istituti in difficoltà, a cominciare dalla banca franco-belga Dexia, praticamente sull’orlo del baratro.
Il cambio di vento si era avuto a notte fonda, quando da una delle più lunghe riunioni delll’Ecofin – i ministri finanziari dell’Unione – era uscita la notizia che poi Olli Rehn, commissario Ue agli affari economici, ha dettagliato in un’intervista al Financial Times. Dal punto di vista strutturale, i problemi restano tutti: i mercati finanziari non riescono a camminare sulle proprie gambe, tendono a cadere a scadenze sempre più ravvicinate e solo «la garanzia pubblica» riesce a risollevarne per qualche tempo, o qualche giorno, l’umore.
Diventa dunque centrale capire chi, oggi, rappresenti il potere politico – decisionale in senso stretto – nel Vecchio Continente minato dalla crisi. Lo scontro sottotraccia, mimato anche ieri, tra la Commissione europea e la Germania, sta diventando palpabile. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha gettato tutto il peso della propria economia spiegando, dopo un incontro con Manuel Barroso (presidene della Commissione), le proprie priorità. Per quanto riguarda la necessità di ricapitalizzare le banche, «l’Efsf (il fondo di stabilità europeo che si è deciso di rafforzare, ndr) può intervenire solo come ultima istanza; prima devono provvedere le banche stesse, poi – se persistono le difficoltà – devono intervenire i governi nazionali». Solo se nemmeno questo sarà sufficiente, «allora si può pensare all’uso dell’Efsf».
A rafforzare la sua posizione era già arrivato il ministro delle finanze di berlino: «in caso di emergenza potremmo reintrodurre le leggi del 2008»; ovvero un fondo salva-banche (il Soffin) totalmente dedicato ai soli istituti tedeschi. Una scelta «nazionale» che sottrae quantomeno risorse al contributo teutonico per uno sforzo comune «europeo».
Un doppio secchio d’acqua gelata sulle speranze di «sanare» situazioni critiche con soldi tedeschi, in pratica. Ma anche questa disponibilità «di ultima istanza» è condizionata: «la modifica dei trattati non deve essere un tabù, se questo serve ad affrontare le sfide». La sfida è quella di trasformare il format che la «troika» (Ue, Bce, Fmi) sta sperimentando sulla Grecia in qualcosa di automatico, sancito con una revisione dei patti interstatuali, in direzione di una limitazione di sovranità in materia di politica economica.
Il buon Barroso ha fatto fatica a contenere tanto «interventismo», stemperando dove possibile («il Trattato va cambiato solo se questo che abbiamo si dimostrerà inadeguato»), ma rivendicando una difficile supremazia dell’organismo che presiede («la Commissione è il governo economico dell’Europa»). La realtà nuda e cruda è che comanda chi ha le risorse maggiori. E su questo dubbi non ce ne sono (né la Germania vuole seminarne). Solo sulla Tobin tax c’è unità di intenti, e sarà proposta a una riunione del G20.
Il rischio di queste tensioni è evidente: dare la fotografia di un’Europa divisa in tanti interessi nazionali, dunque incapace di affrontare «con uno sforzo coordinato» la tempesta dei debiti sovrani «declassati». Una eventuale rottura dell’unità monetaria sarebbe per la stessa Germania un disastro (anche se forse minore che per altri paesi). Uno studio pubblicato proprio ieri da Allianz calcola che in questo caso ci sarebbe una caduta del Pil nazionale del 3% e la scomparsa di almeno un milione di posti di lavoro.
In ogni caso, le banche europee verranno ricapitalizzate dagli stati; in primo luogo da quelli «di riferimento» territoriale. Ma quanto servirà? Rehn ha svicolato («non è il caso di speculare sull’ammontare necessario, la situazione cambia giorno per giorno»). Ma Morgan Stanley – banca d’affari Usa, a sua volta sospettata di poter diventare «la prossima Lehman» – ha fatto i suoi bravi conti: «almeno 140 miliardi di euro». E soltanto dal fondo Efsf che, come diceva Merkel, «interverrà solo in ultima istanza» e «dopo gli stati nazionali». Comunque sia, possiamo dimenticarci qualsiasi ritorno alla stabilità nei conti pubblici: ci attende un secondo round di «socializzazione delle perdite» a favore dei banchieri privati.
I quali hanno anche altri problemi a breve termine. La stessa Merkel, parlando della ferma volontà di mantenere «la Grecia nell’euro», ha spiegato che «occorre rivedere la partecipazione dei privati» al piano di salvataggio. Nell’accordo siglato il 21 luglio, si era convenuto di riconoscere loro un prezzo pari al 79% del valore nominale dei titoli greci. In teoria si trattava di una perdita secca del 21%. In pratica, per gli istituti che avevano scommesso sul salvataggio europeo – comprando quindi obbligazioni a prezzi stracciati (40-50%) – poteva anche esserci un guadagno mostruoso. Se passerà l’idea della Germania, invece, ci saranno guadagni minori o perdite più alte.
Per concludere il panorama, le banche stanno da settimane preferendo il deposito di liquidità presso la Bce. La quale offre un tasso di interesse annualizzato dello 0,75%. Molto meno di quell’1% che è oggi il tasso interbancario. Ma preferiscono «la sicurezza» di rivedere i propri soldi al rischio di prestarli… ad un’altra banca. Ieri è stata toccata la cifra record di 213 miliardi «privati» depositati presso l’istituto giodato da Trichet. Un livello mai toccato dal luglio 2010.
A questo punto sono in molti a scommettere che nella prossima riunione del board della Bce – l’ultima con il francese presidente, poi ci sarà l’insediamento di Mario Draghi – si deciderà un taglio dei tassi di interesse, attualmente all’1,5%. Del resto Francoforte – se vuole contribuire a una speranza di «crescita» dell’economia reale – non può più limitarsi solo all’acquisto di Btp italiani e Bonos spagnoli.
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Usa
I consumi sono bloccati, la disoccupazione è alta
Gli Stati uniti stanno alla finestra e osservano quello che accade nel resto del mondo e si accorgono che i loro destini (economici) dipendono molto, anzi moltissimo, dalle sorti dell’economia globale. E, come ha fatto Bernanke martedì sera, non perdono l’occasione per fare lezione su quello che dovrebbero fare gli altri paesi a cominciare dalla Cina. E questo perché – come ha diagnosticato il Fondo monetario, la ripresa americana «ha perso slancio», fatto che riflette fattori temporanei e un calo superiore alle attese dei consumi, derivante «dalle persistenti fragilità del settore immobiliare e da una disoccupazione ostinatamente alta». Nel «Regional Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale sulle Americhe» si spiega che l’economia Usa dovrebbe crescere più dell’1,5% nella seconda metà dell’anno, fermandosi però all’1,5% nel 2011 e all’1,8% nel 2012, con un’inflazione al 2,5% nel 2011 e allo 0,9% l’anno successivo, mentre il bilancio delle partite correnti in percentuale del Pil dovrebbe segnare rispettivamente un -3,1% e un -2,1% quest’anno e il prossimo. Con una ripresa così lenta, le politiche fiscali devono essere «attentamente calibrate per non minare la crescita nel breve periodo», scrive l’Fmi, e, in questo contesto, la politica monetaria deve rimanere accomodante: la scelta della Federal Reserve di lasciare i tassi ai minimi storici almeno fino a metà 2013 «è appropriata», come lo è la scelta di allungare la scadenza dei titoli in portafoglio.
L’economia Usa che non cresce più non preoccupa solo Obama che vede allontanarsi la possibilità di rielezione alle presidenziali del prossimo anno, ma sta gettando nel panico milioni di cittadini abituati a consumare indebitandosi. E c’è anche chi si lamenta perché le società quotate distribuiscono pochi utili. Ora indebitarsi è diventato estremamente difficile un po’ per «colpa» delle banche, ma soprattutto per l’occupazione che non cresce con la disocupazione che rimane a livelli estremamente elevati: quasi 15 milioni i senza lavoro con un tasso di disoccupazione attorno al 9%, ma in realtà nettamente superiore in quanto alcuni milioni di ex lavoratori si sono tirati fuori dal mercato del lavoro perché non riescono a trovare una nuova occupazione.
Tenendo conto del flusso demografico e di quello migratorio, gli Usa per poter vedere ridurre effettivamente il tasso di disoccupazione dovrebbero creare circa 130 mila posti di lavoro al mese. Nei mesi scorsi non è avvenuto e secondo l’ultima stima dell’Adp anche in settembre serebbero stati creati nel settore privato «solo» 91 mila posti, un po’ più delle previsioni degli esperti, ma troppo pochi per riportare fiducia sulle prospettive di crescita. Domani sarà pubblicato dal dipartimento al lavoro il dato ufficiale sul mercato del lavoro in settembre, ma non c’è molto ottimismo. Anche perché, sempre in settembre, l’Ism servizi, termometro delle attività non manifatturiere americane, è sceso a 53 punti, dai 53,3 punti di agosto. In particolare, sull’andamento dell’indice hanno influito «vendite che continuano ad aumentare in modo lieve» e la crescita delle attività imprenditoriali.
Dalla Bce in arrivo liquidità per un anno
di Alessandro Merli
La Banca centrale europea si prepara a venire incontro alle difficoltà delle banche europee fornendo liquidità illimitata a un anno, come aveva fatto durante la crisi seguita al collasso di Lehman Brothers.
Appare invece sempre più incerta la possibilità di un taglio dei tassi d’interesse, che solo un paio di settimane fa veniva dato per sicuro dai mercati, nonostante anche i dati di ieri sul settore dei servizi mostrino che l’economia dell’area euro si sta avviando con ogni probabilità a una ricaduta in recessione a fine anno. Peserà quasi certamente sulla decisione della Bce, oggi a Berlino nella sua ultima riunione sotto la presidenza di Jean-Claude Trichet, che dal 1° novembre lascerà il posto a Mario Draghi, la risalita dell’inflazione al 3% a settembre. E questo nonostante tutte le previsioni, comprese quelle della stessa Bce, indichino che a partire dalla primavera prossima l’inflazione possa scendere rapidamente sotto il 2%.La riunione si svolgerà tra l’altro nella sede berlinese della Bundesbank e, accanto a Trichet, siederà oggi il presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, il capofila dei “falchi” anti-inflazione nel consiglio Bce dopo le dimissioni di Jürgen Stark.
La volontà di evitare un’ulteriore spaccatura, dopo quella già verificatasi sull’acquisto dei titoli italiani e spagnoli, con una parte minoritaria ma consistente del consiglio, può essere un fattore che contribuirà a lasciare invariati i tassi. Questa è oggi l’aspettativa di molti osservatori di mercato, anche se qualcuno ritiene che la Bce potrebbe decretare un taglio di 25 punti base. I prezzi di mercato riflettevano fin quasi a fine settembre l’orientamento che in questa riunione la Bce avrebbe potuto annullare in solo colpo entrambi i rialzi decisi negli ultimi mesi per complessvi 50 punti base. Appare minoritaria fra gli economisti che seguono da vicino la Bce anche la posizione di chi ritiene che Trichet possa chiudere con un ribasso dei tassi, dopo aver riconosciuto nella riunione di settembre il cambiamento dello scenario economico, anche per non far ricadere questa responsabilità su Draghi al suo debutto.
Da settembre, i dati sull’economia puntano su una stagnazione o addirittura una crescita negativa nel terzo e quarto trimestre per molti Paesi dell’area euro. Stagnazione che ha ormai raggiunto varie aree dell’economia tedesca, finora la più robusta di Eurolandia. L’aumento temporaneo di inflazione e massa monetaria dovrebbe comunque prevalere nelle valutazioni del consiglio.
La Bce è del resto sempre attenta a tenere separata la politica monetaria dalle azioni “non standard” prese invece a favore della stabilità finanziaria. E queste dovrebbero comprendere, nella riunione di oggi, una riapertura delle operazioni di rifinanziamento delle banche a 12 mesi, per la prima volta dal dicembre 2009, e forse anche nuovi acquisti di covered bond delle banche, come avvenuto a cavallo del 2009 e del 2010, per venire incontro alle loro difficoltà di raccolta. Possibile anche un ribasso del tasso (oggi lo 0,75%) al quale la Bce remunera i depositi, nel tentativo (di incerta efficacia) di ridurne l’entità e indurre le banche a tornare a operare sull’interbancario
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Se la Germania parla europeo
di Carlo Bastasin
La decisione della cancelliera Merkel di ricapitalizzare le banche tedesche rappresenta una doppia svolta. Da un lato riconosce che la crisi si alimenta della continua interazione tra debiti sovrani e bilanci bancari e non è solo un problema di Paesi indisciplinati. Sarà necessario ora che l’intervento sulle banche sia ben coordinato a differenza di quello dell’ottobre 2008 che ha scatenato la crisi avviando l’interazione con i debiti sovrani.
L’altra svolta è l’ammissione che la “politica dell’incertezza” propugnata da Berlino è stata controproducente. In assenza di un assetto politico europeo in grado di costringere gli altri Paesi a disciplinarsi, la strategia tedesca è stata di lasciare spazio alla pressione dei mercati attraverso l’incertezza degli aiuti. La strategia prevede che Berlino rafforzi l’impegno politico per l’euro, ma al tempo stesso freni le soluzioni che possono stabilizzare la crisi – l’acquisto di titoli della Bce, gli eurobond, l’ampliamento del fondo di stabilità – per non togliere pressione alle riforme nei Paesi in crisi.
L’ultima riunione dell’Eurogruppo ha dato la misura di questa partita di poker. I prestiti alla Grecia sono stati rinviati per mettere pressione su Atene nei colloqui con la troika. Il Governo greco ha poi “scoperto” di avere una riserva ben nascosta che permette di evitare il default e infine ha rafforzato il pacchetto di riforme.
L’incertezza poteva servire se a trasformare l’economia greca fossero bastati uno o due anni. L’idea nasce dall’esperienza eccezionale dei Paesi dell’Est Europa che – senza toccare il tasso di cambio con l’euro – sono stati capaci di uscire dalla recessione del 2008-9 in brevissimo tempo. Ma quelle economie erano già “aperte”, gli investimenti esteri erano massicci, le banche in mani straniere, la catena produttiva integrata con le imprese dell’Ovest. L’economia greca è molto lontana da essere un’economia aperta e integrata. In tali condizioni il taglio di prezzi e salari – riuscito all’Est – produce per ora solo recessione e debito. Recuperare produttività richiederà 5-10 anni che non possono trascorrere sempre sull’orlo del default.
L’alternativa al default e all’incertezza è una gestione comune della sovranità economica nei Paesi assistiti. Tra 15 giorni i governi dell’area euro discuteranno il piano di riforme presentato da Van Rompuy che darà personalità politica all’Eurogruppo, limiterà la cacofonia delle voci multiple dei governi e definirà il maggiore potenziale di assistenza finanziaria del fondo di stabilità. Potrebbe essere il momento giusto per capire quanta sovranità è possibile condividere.
Il ruolo dell’Italia è fondamentale. Se continuerà a ignorare le riforme richieste per ultima dalla Bce, dimostrerà che la soluzione politica sarà inefficace e che l’unica disciplina può venire dai mercati e dall’intimidazione del default. Se assumerà la propria responsabilità europea potrebbe togliere l’ultimo ostacolo all’integrazione politica a cui la stessa Germania già lavora.
La retorica pubblica tedesca sul futuro dell’Europa sta infatti cambiando. Il tema dell’unione politica europea sta diventando un orizzonte condiviso. La cancelliera Merkel lo ha posto come punto di arrivo della crisi. Il ministro delle Finanze Schäuble ha pubblicato domenica un manifesto da convinto europeista. Il probabile sfidante socialdemocratico alle prossime elezioni, Peer Steinbrück, ha stilato un programma per l’unione politica entro dieci anni, con accenti di forte europeismo. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha aperto allo scenario del federalismo fiscale. Perfino il presidente della Corte costituzionale ha virato le sue riserve su una maggiore integrazione verso uno stimolo allo sviluppo del progetto europeo.
La prospettiva delle elezioni federali accelererà la svolta europeista della politica tedesca. Non deve sorprendere. Un cittadino tedesco su cinque ha dietro di sé una storia di immigrazione. Un bambino su tre viene da famiglie di “nuovi tedeschi”. Negli asili di Berlino e Francoforte la quota di immigrazione è del 60%. Nel cuore d’Europa e in un tale contesto sociale, non si può pensare che la retorica dell’identità possa prevalere su quella dell’integrazione. La grammatica dell’interdipendenza è un fatto acquisito nella vita di cittadini tedeschi il cui posto di lavoro dipende per il 50% dal commerci con l’estero e il cui reddito ne dipende per una quota anche maggiore. Quando il prossimo Governo avrà finito il suo mandato, metà degli elettori in età lavorativa non avrà mai usato la D-mark nella sua attività. Che senso storico può avere l’ipotesi di abbandonare la moneta comune europea per tornare al marco?
Le scelte dei prossimi 15 giorni, in Italia e a Bruxelles, sono un test esemplare per mettere alla prova l’integrazione politica che la Germania riconosce come orizzonte europeo. La crisi d’altronde non è una storia solo di truffe contabili greche, ma di cattivi intrecci finanziari che legano creditori e debitori, come dimostra il caso Dexia e di interazione tra Stati e banche. È nella natura umana cercare i colpevoli, siano i greci o siano i banchieri. Ma è nella natura della politica cercare prima le soluzioni e dare ad esse un contesto e un sostegno popolare. E questa crisi va risolta non come un problema di identità, ma come un problema di integrazione.
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La garanzia della liquidità
di Daniel Gros
L’Eurozona sta riuscendo ad allontanarsi dal baratro? Forse sì, perché stanno emergendo i contorni generali di un nuovo approccio per risolvere la crisi del debito, e c’è una componente fondamentale che finora mancava. Anzi, è stata proprio l’assenza di questa componente che durante l’estate ha innescato l’allargamento della crisi finanziaria dai piccoli Paesi della periferia dell’euro, come Grecia, Irlanda e Portogallo, a Nazioni fondamentali per la tenuta del sistema, come Italia e Spagna.
Il contagio è cominciato quando gli investitori si sono resi conto che il fondo di salvataggio dell’Europa, l’Efsf (Fondo europeo per la stabilità finanziaria), era stato congegnato in modo tale da poter sostenere finanziariamente solo i Paesi periferici. Non ha e non ha avrà mai risorse sufficienti per gli acquisti di titoli di Stato necessari per stabilizzare i mercati di grandi economie come Spagna e Italia. L’Efsf, nella migliore delle ipotesi, potrà contare su 440 miliardi di euro (qualsiasi incremento metterebbe a rischio il rating tripla A della Francia), mentre il debito pubblico di Spagna e Italia insieme supera i 2mila miliardi.
All’inizio di agosto, l’effetto domino delle crisi debitorie nei Paesi della periferia dell’euro si è messo in moto perché i mercati, invece di aspettare il progressivo declassamento dei vari Paesi, tendono ad anticipare il finale, o almeno un potenziale scenario, nel caso specifico lo sfilacciamento di tutta la struttura per il contenimento della crisi. I mercati si sono accorti che l’euro sembrava preso fra l’incudine (la limitata capacità di intervento dell’Efsf) e il martello (la grande riluttanza della Bce a impegnarsi in acquisti su larga scala di titoli di Stati in difficoltà). In seguito si è scoperto che il martello-Bce, se non di gomma, quantomeno non era di acciaio, anche se Francoforte ha sottolineato che cesserà i suoi interventi non appena il l’Efsf diventerà operativo; e considerando la limitata potenza di fuoco di quest’ultimo, questo vorrebbe dire che il mercato rimarrebbe senza supporto.
L’eurozona ha bisogno di un “puntello” di liquidità che dia credito alla sua autorità finanziaria. In un’economia “normale”, le autorità pubbliche non si trovano mai a corto di liquidità, perché il Governo può sempre contare, almeno potenzialmente, sul supporto della Banca centrale. Un Governo nell’eurozona, invece, si trova sempre in una situazione precaria: ha attività molto a lunga scadenza (il suo potere di imposizione fiscale) e passività a più breve scadenza, in particolare il debito pubblico, che deve essere rifinanziato per la gran parte ogni anno. Se gli investitori rifiutano di comprare titoli di Stato a qualsiasi condizione, anche un Governo oculato nella gestione dei conti pubblici può trovarsi a corto di liquidità e diventare insolvente.
Allo stesso modo, le banche hanno passività a breve scadenza (i depositi) e attività a lunga, che non possono trasformare in liquidità in tempi rapidi senza incorrere in grosse perdite. Ecco perché tutti i Paesi garantiscono un sostegno di emergenza quando si materializza una crisi di panico, come è stato fatto su scala globale quando è precipitata la fiducia nelle banche dopo il fallimento Lehman, nel 2008.
Anche l’eurozona ha bisogno di un meccanismo analogo. Per fare questo è necessario che le autorità di bilancio abbiano a disposizione fondi cospicui a cui attingere in caso di emergenza. Solo la Bce può fornire questa garanzia. La buona notizia è che sta lentamente prendendo forma una soluzione tale da consentire alla Bce di supportare l’Efsf. Per riuscirci, potrebbe essere sufficiente registrare l’Efsf come una banca, che in questo modo potrebbe rifinanziarsi presso la Bce alle stesse condizioni delle banche normali. L’Efsf potrebbe poi operare acquisti di titoli di Stato su vastissima scala, potenziando i propri fondi limitati grazie al supporto della Bce e dando a garanzia i titoli di Stato che acquista.
Sapendo che un ammanco di liquidità non è più possibile, gli investitori si asterrebbero da attacchi speculativi contro i Paesi solventi. La situazione di quasi panico sui mercati finanziari si è placata appena si è sparsa la voce che dietro le quinte si stava quantomeno discutendo di questa soluzione. Ora bisogna attuarla. Come sempre, in Europa, ci sono ostacoli giuridici e politici al cambiamento. Ma anche i politici più riluttanti riconoscono che non agire comporta costi troppo grandi. Gli ostacoli giuridici al potenziale “finanziamento monetario” del settore pubblico contenuti nei trattati dell’Unione europea possono essere superati. Solo il Governo tedesco e la Bce possono aprire la porta a questa riforma, sottile ma profonda, delle basi della moneta unica. È una scelta che non possono rimandare ancora a lungo.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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