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L’Europa sospesa tra “stretta” e collasso

Il quale certo non poteva fare lo stesso gioco nel suo primo intervento da governatore. Sarebbe suonata una sconfessione del lavoro fatto dal predecessore e una “botta di protagonismo” fuori misura nel momento in cui si vanno a ridiscutere i rapporti funzionali tra i vari poteri dell’Unione europea.

Ma l’allarme è vero. Così come “la cura” escogitata per porvi rimedio. Che poi non possa funzionare, lo diciamo noi.

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Galapagos
A SCOPPIO RITARDATO

L’Italia? Un gran casino. L’Europa? Idem. E un po’ per volta il caos economico si sta estendendo all’intera economia globale. A sostenerlo non è solo il manifesto (da tempi non sospetti) ma da ieri al coro si è aggiunta una voce «autorevole»: quella di Jean-Claude Trichet. Il presidente uscente della Bce ha sostenuto davanti al Parlamento europeo che siamo di fronte a una crisi «sistemica», cioè non congiunturale, e che questa crisi si è accentuata nelle ultime tre settimane. Mente, ovviamente, sulle «tre settimane», ha ragione sulla crisi «sistemica», che un tempo avremmo definito «strutturale». Ma i Grandi della Terra non usano mai questa questa parola: temono possa mettere in dubbio la «struttura», cioè il sistema di produzione, il modo di essere del sistema economico-sociale che qualcuno vorrebbe cambiare. Non Trichet.
Il vecchio banchiere centrale ha riproposto, infatti, le solite ricette senza alcuna autocritica in particolare all’operato della Bce. Non a caso ha insistito sul fatto che la crisi sia divenuta più virulenta solo nelle ultime settimane, quando era evidente da mesi e mesi che le ricette liberiste e antipopolari (suggerite dalla stessa Bce) stavano peggiorando la situazione, ma soprattutto la condizione di vita di milioni di persone, a cominciare dai greci. C’è da indignarsi e per fortuna c’è chi lo fa. E, a proposito di Grecia, ieri il presidente dell’Eurogruppo ci ha fatto sapere che probabilmente occorrerà dare una bella sforbiciata al debito di Atene (più del 60%) per far uscire il paese dalla crisi fiscale. Un taglio che dovrà essere accettato «volontariamente» dai creditori, soprattutto banche, le quali, tuttavia, ne usciranno indenni: per loro Sarkozy e Merkel hanno messo a punto un piano di aiuti da centinaia di miliardi, come già successo negli ultimi anni, dopo la crisi del 2008.
Insomma, il sistema si perpetua: cane non mangia cane, viene da dire, e la crisi è chiamata a pagarla la povera gente, ma anche il ceto medio all’occorrenza. Quando cioè i governi non sanno (e non vogliono) trovare risorse in alte direzioni, in altri soggetti, con tagli alle spese inutili e sicuramente improduttive. Al contrario si usa l’accetta quando si tratta di mutilare la spesa sociale. Offrendo al tempo stesso ai privati nuove occasioni di profitto. Il tutto privilegiando la spesa militare a quella per la conoscenza. C’è da indignarsi di tutto questo?
Ovviamente. In tutta Europa, nei paesi africani (anche con altre fondamentali motivazioni) e perfino negli Stati Uniti (soprattutto a Wall Street) la gente ha cominciato a indignarsi e la protesta cresce. «La crisi non vogliamo pagarla noi» era lo slogan scandito due anni fa. L’urlo è sempre più attuale e sabato sicuramente lo sentiremo ripetere a Roma, a Bruxelles e in altre mille città in tutto il mondo. Ma gridare non basta: la protesta deve trasformarsi in progetto politico, in economia alternativa, spazzando via anche una sinistra ufficiale incapace di guidare il cambiamento.
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Tommaso De Berlanga
Banche
Davanti alla crisi ore contate
La Grecia ormai è fallita, un default pilotato potrà costare anche il 60% del valore dei titoli; una perdita astronomica per gli istituti di credito Alla vigilia dell’addio, Jean-Claude Trichet usa toni drammatici: «siamo l’epicentro di una crisi sistemica» e «le istituzioni devono agire rapidamente per ricapitalizzare le banche». Abbiamo «i minuti contati» perché il contagio si va allargando Le banche soffrono: le perdite greche sono e devono innalzare subito le riserve di capitale

Un Trichet così non lo aveva visto probabilmente nessuno. Ultimativo e preoccupato. Il presidente della Banca centrale europea (Bce) ha parlato ieri in qualità di responsabile dello European Systemic Risk Board, creato per scongiurare il ripetersi del crack del 2008. Ma quel che ha detto, in sintesi, significa che siamo di nuovo davanti a quel baratro.
«L’Europa è l’epicentro della crisi, e nelle ultime tre settimane la situazione è peggiorata». Soprattutto, ha colpito l’enfasi sui tempi stretti per reagire: «il rinvio del vertice Ue è utile se la Ue sarà finalmente in grado di trovare risposte chiare ai due problemi urgenti: la crisi dei debiti e la ricapitalizzazione delle banche». Dettaglio: «su cui abbiamo i minuti contati».
Cos’è successo nelle ultime settimane per rendere la situazione così tragica? «lo stress sovrano dalle piccole economie è passato a paesi Ue più importanti», ha spiegato; «e il rischio contagio si è esteso anche a usa e Giappone». Questo rende l’attuale crisi – parole sue – «sistemica». Potenzialmente un disastro.
Ma Spagna e Italia sono in sofferenza da luglio e agosto, non proprio ieri mattina. E la Bce è intervenuta quasi ogni giorno con «misure non convenzionali», tipo l’acquisto di Btp e Bonos per sostenerne il prezzo e facilitare il collocamento di nuove emissioni sostitutive.
Ripetiamo perciò la domanda: che altro è successo? Una prima risposta viene dall’ammissione che «l’accordo di luglio» per salvare la Grecia, facendo pagare ai «privati» – ossia le banche europee – una perdita del 21%. Ora il presidente dell’Eurogruppo, Juncker, (vedi sotto) chiarisce che non potrà essere meno del 50, forse del 60%. Questo significa perdite enormi, che rischiano di mettere al tappeto diversi istituti importanti (tedeschi e francesi, per dirne due).
Si spiega allora la fretta e l’apparente solidità granitica del vertice a due tra Sarkozy e Merkel – domenica – che ha avuto un solo punto pubblico chiaro: «ricapitalizzeremo le banche a qualsiasi prezzo». Le nostre, era sottinteso. La sortita di Trichet appare dunque in stretta continuità con quel vertice e con la preoccupazione che non si riesca a sincronizzare le tappe di un default pilotato della Grecia con il rafforzamento patrimoniale delle banche.
Del resto, basta guardarsi intorno. La franco-belga Dexia è stata «salvata» una seconda volta, dopo appena tre anni, grazie a uno «spacchettamento» che ha restituito a ogni paese (Lussemburgo compreso) la propria fetta e a proprie spese. La prima banca austriaca – Erste Group – destinataria nel 2008 di imponenti aiuti pubblici, chiuderà l’anno corrente con perdite consistenti. Colpa degli investimenti nell’Est europeo, a cominciare da Romania e Ungheria.
Particolarmente interessante il caso di Budapest, dove il governo ha dovuto fare una legge per consentire ai mutuatari – che avevano sottoscritto contratti in euro o franchi svizzeri – a pagare le rate in fiorini, a un cambio fisso inferiore del 25% a quello ufficiale.
Contemporaneamente, i regolatori bancari europei stanno chiedendo agli istituti di elevare i «requisiti di capitale» almeno al 7%. Significa incrementare la liquidità posta a riserva delle operazioni, ossia sottrarre molto al circolante proprio mentre i prestiti tra le banche sono di fatto bloccati (come nel 2008, ricordiamo) e il tasso overnight fa segnare ogni giorno nuovi record. Un segnale pessimo.
Quanto ai rischi di contagio, vale l’osservazione di Trichet: «l’alta interconnessione del sistema finanziario della Ue ha favorito la sua rapida diffusione», fino a «minacciare l’intera stabilità finanziaria» con un «impatto negativo sull’economia dell’Europa e oltre».
Una seconda indicazione viene dalla Commissione Ue (il «governo» continentale). Per abbattere la barriera del 100% del debito rispetto al Pil (vale per Italia, Belgio, ecc), «servono misure di austerità permanenti». La spiegazione è sempre la solita («una radicale correzione dei conti pubblici a lungo termine per prevenire i problemi legati all’invecchiamento della popolazione e la conseguente crescita dei costi sociali»), ma la causa viene riconosciuta nei «rischi aumentati per la crisi irrisolta dell’eurozona e delle sue ripercussioni sui mercati finanziari e sul rallentamento dell’economia globale». Il modello sociale europeo va insomma sacrificato non perché sia intrinsecamente «troppo costoso», ma perché «il sistema finanziario globale» sta crollando per conto suo. Qui dunque sembra decisamente opportuno porre le domande che il 15 ottobre verranno urlate nelle piazze di mezzo mondo: «di chi è questa crisi?» e «di chi è questo debito?»

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Galapagos
Grecia/AIUTI ALLE BANCHE FINALIZZATI ALLA RIDUZIONE DEL DEBITO
Juncker: necessario tagliare di almeno il 60% il valore nominale dei bond sovrani di Atene

Una parola nuova si aggira per l’Europa: haircut. Tradotta alla lettera significa «taglio dei capelli», ma anche tosatura. E certamente sarà profonda l’haircut, la tosatura prevista per il debito greco. In altre parole, una ristrutturazione netta e ampia del debito greco con un taglio consistente del valore nominale dei titoli in possesso dei creditori. Il taglio era apparso come la soluzione migliore fin da due anni fa per aiutare concretamente la Grecia visto che appariva evidente che nonostante i sacrifici imposti alla popolazione la massa del debito rimaneva enorme e sarebbe stato praticamente impossibile restituirlo nei prossimi anni. Ma la comunità finanziaria internazionale teneva duro e insisteva per i sacrifici, fino a quando conti alla mano ci si è resi conto che conveniva di più tagliare il debito. Una soluzione suggerita tra l’altro anche da Alan Greenspan, l’ex presidente della Federal reserve.
Finora, però, mancavano prese di posizione ufficiali da parte della Ue, ma ora anche nell’Europa dell’euro e non solo si sta facendo strada la convinzione che un haircut è necessario. A dirlo è stato addirittura Jean Claude Juncker. In un’intervista alla rete televisiva austriaca Orf, il presidente dell’Eurogruppo ha, infatti, fatto capire che chi detiene titoli di stato ellenici potrebbe essere chiamato a subite perdite anche superiori al 60% rispetto al valore nominale dei bond. Alla domanda dell’intervistatore se l’Unione europea stesse discutendo di un taglio del debito greco compreso tra il 50 e il 60 per cento, Juncker ha replicato: «discutiamo di una cifra superiore». Questo significa che nel giudizio dell’Europa, Atene è ormai fallita e, come i tutti i fallimenti, i creditori dovranno accontentarsi di riscuotere meno di quello che hanno prestato soldi a chi ha fatto bancarotta.
Insomma, saremmo di fronte a una ristrutturazione del debito molto più ampia di quella decisa con l’accordo del 21 luglio quando fu siglato un compromesso che prevedeva un coinvolgimento «volontario» dei possessori del debito greco realizzato con il cosiddetto rollover del debito che comportava un taglio del 21% del valore nominale dei bond greci. In giornata Guy Schuller, portavoce di Juncker, ha cercato di attenuare la dichiarazione del presidente del l’eurogruppo sostenendo che si era trattato di un «un malinteso». Tuttavia, la France Presse, l’Agenzia di stampa francese ha confermato che a livello di governi si sta discutendo di un taglio del 50% del valore nominale delle obbligazioni greche. D’altra parte, sempre Juncker, ha sostenuto – con riferimento alla Grecia – che «bisogna fare di tutto per evitare la bancarotta di un paese dell’area euro». E, nell’ultimo incontro tra la Merkel e Sarkozy quando si è deciso di rifinanziare il sistema bancario, sembra che l’esigenza di immettere fondi in abbondanza nelle grandi banche sia stata dettata proprio dall’esigenza di attenuare l’effetto delle perdite subite con un taglio molto ampio dei crediti con la Grecia.
L’operazione di un haircut profondo appare dettata dal buon senso, soprattutto dall’aver capito – in forte ritardo – che la Grecia con le cure tradizionali «lacrime e sangue» era destinata a sprofondare per ani nella recessione che avrebbe reso impossibile restituire il debito, ma lascia aperti alcuni problemi giuridici di portata internazionale. La base di partenza è in una domanda: l’haircut deve essere considerato una dichiarazione di fallimento? La mafia delle agenzie di rating non ha dubbi: è un fallimento, anche se coperto da una operazione di ristrutturazione. Le autorità europee che avevano promosso l’haircut del 21 luglio la pensano diversamente e sostengono che la «volontarietà» dell’adesione dei creditori non può essere considerata come una bancarotta
Può sembrare una discussione accademica se non ci fossero di mezzo i Cds, i credit default swap che assicurano sul rischio fallimento. Nell’ipotesi di un default, le banche che hanno emeso Cds a copertura del debito sovrano della Grecia sarebbero costrette a pagare onerosi risarcimenti. Ma chi decide se Atene ha fatto fallimento? Non le agenzie di rating o le autorità europee, ma le banche stesse attraverso la Isda, che è l’acronimo dell’Associazione internazionale su swap e derivati che riunisce tutti gli operatori del settore. E cioè, oltre 800 banche e società finanziarie in tutto il mondo. E L’Isda ha sostenuto che l’accordo dello scorso luglio non avrebbe fato scattare l’obbligo di risarcire i titolari di chi aveva sottoscritto cds.

da Il manifesto del 12 ottobre 2011
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I padroni dell´Europa (Barbara Spinelli)

Per le indicazioni molto dettagliate che contiene, la lettera che Trichet e Draghi hanno inviato al governo italiano conferma quel che alcuni hanno detto: l´Italia di fatto è governata da autorità sovranazionali non elette, che non devono render conto davanti ai cittadini. Pur non appartenendo a un partito, non sono autorità tecniche: fanno politica in senso pieno, governano i conflitti della pòlis constatando che è malgovernata. È un rapporto feudale che viene instaurato: il vassallo inadempiente è salvato dal vero sovrano, e in cambio gli giura obbedienza e restringe le proprie libertà. 

Di primo acchito sembrerebbe che solo così possa nascere un´Europa politica, potente mondialmente. Ma le cose sono più ambigue, torbide. Uno Stato corroso come il nostro, manomesso da un premier che lo scardina privatizzando il bene pubblico, non fa nascere l´Europa ma la snatura. A nulla serve che gridi contro il duopolio franco-tedesco; non lo udranno. Il caso Italia dovrebbe far riflettere l´Unione, perché crea un precedente grave: se un organo federale di natura tecnica interviene con pesantezza inusitata su un paese membro, è perché ha di fronte a sé un non-governo, un non-premier. Non è prepotenza la sua, ma il diritto naturale all´interferenza che la Bce acquisisce comprando il nostro debito a colpi di miliardi e risparmiandoci la bancarotta. Il governo sovranazionale ci tiene in piedi, e il potere che acquisisce è la risposta a un´inettitudine, un´impotenza. La crisi dell´euro rimette in questione le sovranità nazionali, svelandone l´illusorietà, e al tempo stesso ridisegna a caldo le loro democrazie, non senza insidie e squilibri fra Stati iper-sovrani e Stati non più sovrani. Il modo in cui le ridisegna è la questione del momento.

Rileggere la lettera della Bce, simile a quelle inviate a Atene e Madrid, Lisbona e Dublino, è istruttivo. Il presidente della Banca centrale non si limita a indicare parametri. Entra negli anfratti della legislazione, decide il suo farsi. Il punto saliente è quello in cui, dopo aver elencato le misure per evitare il default, raccomanda perentorio: «Vista la gravità dell´attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate (…) siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011». Quello che si prescrive è un metodo decisionale (il decreto) che mina la democrazia rappresentativa sin qui conosciuta.

Il decreto è un provvedimento adottato «in casi straordinari di necessità e d´urgenza» (articolo 77 della Costituzione). L´abuso che Berlusconi ne fa è stato più volte criticato dal Capo dello Stato, che della Carta è custode. D´un tratto siamo intimati di aumentarne l´abuso. Le lunghe discussioni parlamentari vanno scavalcate, in nome dell´emergenza. È quanto accade in guerra, quando saltano le procedure ordinarie e predomina un gruppo di esperti (i militari). Qui sono i banchieri centrali a prevalere, anche se operano in rappresentanza di tutta l´eurozona (Italia compresa). Per forza giocano un ruolo politico che sulla carta non hanno, quando i governi da sé non ce la fanno. Per forza la Bce impone la stretta decisionista, a un governo che per anni ha negato la crisi, temendo scelte difficili. La crisi delle democrazie è causa ed effetto di questo prevalere della necessità su una libertà che è fittizia, della tecnica su una politica non meno fittizia. Per questo l´Italia è, in Europa, un precursore in negativo: l´opposizione, quando tornerà al governo, dovrà riconoscere che queste necessità ti vengono imposte, se non le assumi. Altrimenti avrà ragione la Bbc: «Una delle prime vittime della crisi dell´Eurozona sarà la democrazia».

L´elusione del dibattito democratico classico è evidente in altri passi della lettera. Tra questi: i paragrafi riguardanti la «privatizzazione su larga scala» dei servizi pubblici (nonostante un referendum italiano ostile a tali privatizzazioni); la riforma salariale collettiva (gli accordi al livello di impresa devono essere «più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»); le norme sul licenziamento; la riduzione di stipendi per i dipendenti pubblici. Perfino su una questione delicata (l´introduzione nelle aziende pubbliche degli indicatori di performance) la Bce interviene senza curarsi della discussione che il tema suscita in Europa. Gli indicatori di prestazione – è scritto in numerosi rapporti di medici e psicologi francesi – vanno maneggiati con prudenza perché ledono la tenuta della società, specie in recessione. L´ondata di suicidi avvenuta nel 2009 in aziende come Telecom-Francia e Renault è legata all´introduzione, nel management, di queste forme di controllo.

I conflitti non vengono superati, sospendendo procedure democratiche tradizionali. Si acuiscono, perché non più rappresentati né governati democraticamente. Quel che rischia di scomparire, quando uno Stato impotente è messo in riga, è lo spazio politico dentro il quale più visioni del mondo possono contrapporsi, misurarsi. L´alternativa, sale della speranza, è sostituita da alternanze formali destra-sinistra. Un´unica linea sembra imporsi, respinta ciecamente da cittadini che la vedono decretata e non discussa.

Naturalmente la lettera non ha quest´unico significato, di restringimento dello spazio democratico. Nel governo tecnico di Francoforte è incorporata anche l´Italia, e paradossalmente il restringimento è dovuto al fatto che l´organo sovranazionale agisce in nome di uno spazio ben più vasto, che i politici nazionali tendono sistematicamente a ignorare. Lorenzo Bini Smaghi, membro dell´esecutivo Bce, è stato chiaro, in un discorso a Poros dell´8 luglio: «L´unione monetaria implica un grado di unione politica molto più ampio di quanto abbiano mai pensato molti commentatori, politici, accademici, e anche cittadini. Questo perché in un´unione monetaria, le decisioni prese in una singola parte coinvolgono le altre parti, in modo diretto e a volte drammatico». Quel che i popoli faticano a capire è che «già c´è un´unione politica, anche se l´intelaiatura istituzionale non garantisce un processo decisionale pienamente compatibile con essa».

Resta che un´Unione siffatta non è vista come democratica dai popoli; e non essendolo, inasprisce le loro chiusure nazionali: non solo in Italia ma anche in Germania. I suoi organi danno l´impressione che l´unica preoccupazione sia la tenuta dei conti: non della società, delle regole, della giustizia, dell´etica pubblica. A prima vista è allarmante, ad esempio, che nella lettera della Bce manchi ogni accenno alla sostanza del modello europeo: giustizia sociale, tasse ripartite con equità e senza evasione, correzione delle disuguaglianze abnormi createsi dagli anni ‘80 fra generazioni, classi, regioni.

Dietro queste apparenze, tuttavia, c´è una realtà meno semplice, che vale la pena esplorare. Prendiamo il caso greco, che illumina molte oscurità. Se nelle sue raccomandazioni la Bce non insiste sul modello europeo, è perché in alcuni Stati il modello è proclamato, non praticato. È l´accusa lanciata dall´economista Yanis Varoufakis, ex consigliere di Papandreou: è vero, Atene è stata costretta a misure socialmente devastanti, ma perché non ha avuto il fegato di imporre una tassa sui ricchi, che da decenni godono di vaste immunità: «È a questo punto che Bce e Fmi hanno detto: ok, se rinunciate alle tasse allora tagliate pensioni e salari dei meno abbienti». Gli organi europei «sono class-indifferent», indifferenti a come gli Stati sanano, equamente o no, i conti.

Altro è il loro difetto. Nei confronti degli Stati più potenti, le istituzioni europee non hanno la stessa imparzialità: non sono nation-indifferent. Il Fondo salva-Stati, che Merkel e Sarkozy vogliono dominare non rendendolo federale ma preservando il diritto di veto di ciascuna nazione, nasce imbelle. Nel 2003, Berlino e Parigi trasgredirono il Patto di stabilità: invocarono l´impunità con una sfacciataggine che ancor oggi pesa. Pesa come un masso, nel mezzo della crisi economica e democratica che gli europei stanno vivendo.

Da La Repubblica del 12/10/2011.

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