Il cibo non è più un piacere ma un business. A maggio è stato elaborato dal Censis in collaborazione con la Coldiretti, un rapporto su “Il valore della filiera italiana del cibo”.
Inutile dire come vengano decantate le virtù dell’italian food e della sua potenzialità di diventare business. Ci tremano le vene ai polsi all’idea che piano piano stia diventando l’unica specializzazione (insieme al turismo) che la divisione internazionale del lavoro sta assegnando ad un paese – il nostro – sulla via della deindustrializzazione e dello shopping in saldo da parte delle multinazionali straniere.
Essendo delle buone forchette lo diciamo con una certa riluttanza, ma non riusciamo a non indicare in questa sorta di “santificazione” di ristoranti, chef, corsi di chef, reality di chef, ricettari etc., una sorta di campagna di persuasione di massa per far sì che questa diventi l’unica strada da percorrere e da far percorrere ai giovani. Lo ripetiamo, a tavola come nell’informazione, sappiamo batterci come leoni, ma molto spesso sentiamo l’odore di fregatura già avvicinandoci alle cucine o prima ancora che arrivi il conto.
Secondo il Rapporto del Censis, la filiera del cibo oggi può vantare quasi 62 miliardi annui di valore aggiunto con un balzo del +5,4% rispetto al 2008 (l’anno della grande crisi, ndr); 41,8 miliardi di euro di esportazioni (+47,8% rispetto al 2008); 1,3 milioni di addetti (+33,3% nel 2013-2018) al settore del food.
Gli incrementi sono superiori a quelli del totale del resto dell’economia italiana, il che porta il Censis ad affermare che questi numeri “non lasciano dubbi sulla nuova centralità della filiera del cibo nell’economia e sulla necessità di supportarla ad ogni livello con policy adeguate”.
Il valore economico della filiera vive di un’agricoltura che è al primo posto nella Ue per valore aggiunto con 32,2 miliardi di euro, al secondo posto dopo la Francia per valore della produzione agricola pari a 56,7 miliardi di euro, con una dinamica di valore aggiunto per addetto in decollo del +37% nel 2010-2018, superata solo dalla Spagna. La filiera beneficia poi di una industria alimentare che fattura 140 miliardi di euro, esporta prodotti per 35 miliardi di euro e registra nel tempo una crescita dei principali indicatori che è nettamente più elevata del resto della manifattura italiana. Con 822 prodotti di origine garantita certificata, primato italiano nella Ue, ben si capisce il boom della nostra filiera del cibo, capace di intercettare la nuova domanda globale di alta qualità e tipicità nell’alimentare.
Il Rapporto del Censis, commissionato dalla Coldiretti, dopo aver fornito i dati del business possibile e potenziale, passa poi a indicare le soluzioni per valorizzare al meglio tutto questo “ben di dio”. E quando si arriva alle conclusioni la puzza di bruciato diventa fortissima.
Non sfugge dalla analisi il livello della competizione globale che ormai attiene a tutti i settori dell’economia: “In generale, in questa fase, è indispensabile accompagnare l’azione della filiera con una intensa ed efficace azione di promozione del brand Italia, della cultura del cibo italiano come incarnazione dell’italianità intesa come insieme di esperienze, culture e prodotti di specifici territori. Il modello italiano delle tipicità è quello più in grado di intercettare la nuova domanda di qualità tracciabile che arriva dai mercati globali, purché sia reso evidente e tutelato il valore italiano, sia dagli assalti dell’italian sounding che dai competitor. E’ un processo di lungo periodo, altamente complesso, che muove su dimensioni diverse, molte delle quali immateriali e relazionali, che ha assoluto bisogno anche di un hub di alto profilo, distintivo e riconosciuto”.
Il lato oscuro di questa visione è quanto leggiamo in un’altra parte del Rapporto Censis quando scrive che: “Nella feroce selezione degli anni successivi alla grande crisi del 2008, la filiera del cibo e i suoi protagonisti ne sono usciti come uno dei più importanti motori potenziali di nuova crescita, anche per le regioni meridionali tradizionalmente più lente. Si tenga presente che, ad esempio, l’agricoltura ha registrato un più alto incremento di valore aggiunto per occupato proprio nelle regioni meridionali”. Da quest’ultima osservazione, è totalmente assente qualsiasi riferimento agli inumani tassi di sfruttamento dei braccianti e alle aste al ribasso sui prodotti agricoli imposti dalla grande distribuzione alimentare. Ovvio che, in queste condizioni di moderno schiavismo e subordinazione, il valore aggiunto per occupato nella filiera alimentare abbia degli alti incrementi.
Ma anche sulla centralizzazione del business alimentare le proposte avanzate sono esattamente quelle sollecitate da tempo dalla parte più internazionalizzata della borghesia italiana. Vediamo ancora cosa scrive in proposito il Rapporto del Censis: “Decisiva è la promozione di una vetrina globale, riconosciuta, autorevole, un grande hub dell’agroalimentare italiano che ha in Milano la sua sede naturale. Da Expo2015 in avanti Milano si è imposta come l’interprete migliore e più conosciuta dei valori più significativi della filiera italiana del cibo: per questo è indiscutibilmente la piattaforma più accreditata e autorevole per rilanciare su scala globale i fattori distintivi dell’italian food e della sua filiera.
Scrive ancora il Censis, portando ancora una volta l’acqua con le orecchie alla borghesia del Nord, che “L’esperienza di Expo2015 a Milano ha sorpreso per successo e per capacità anche di intercettare un certo orgoglio italiano. Milano è con tutta evidenza la piazza più accreditata, quasi naturale e gli eventi relativi al food che sono realizzati nel suo territorio, a cominciare da TuttoFood sono la piattaforma di riferimento più avanzata sulla quale puntare. Una piattaforma altamente inclusiva vocata a rilanciare, promuovere la qualità, la distintitività, l’internazionalizzazione della filiera del cibo, e ad aggregare: un hub strategico non esclusivo, ma che fa sistema e promuove networking tra chi della filiera è parte attiva. Un hub essenziale perché per vincere la filiera del cibo ha bisogno di un suo luogo specifico, di vetrina, networking e promozione: Milano è già pronta per farlo al top”.
La puzza di bruciato diventa così altissima, quasi insopportabile. Proprio in queste ore, dopo quello sull’editoria, si è palesato lo scippo da parte di Milano nei confronti di Torino anche del Salone dell’Automobile.
Sono ormai alcuni anni che la borghesia europeista sta lavorando di spadone e di fioretto per realizzare una concentrazione strategica di risorse, servizi, investimenti, tecnologie, business ed eventifici nell’area metropolitana di Milano a totale discapito del resto del paese.
E non solo verso Roma, Capitale ormai “reietta” e in via di dismissione, o verso il Meridione sottoposto ad un processo di spoliazione sistematico, ma anche verso le altre aree metropolitane del Nord come Torino o Genova, accentuandone così il declino, l’impoverimento e la subordinazione.
E’ un processo che abbiamo denunciato per tempo e da tempo, che a sua volta è integrato/subordinato al “magnete” centro-europeo dove il processo di concentrazione/gerarchizzazione agisce con una sistematicità diventata brutale.
Così anche una narrazione tutto sommato piacevole come la filiera e la cultura del cibo viene ridotta a mero business. E dovremmo consolarci solo con le delizie della cucina italiana?
Piuttosto cominciamo mangiarci i ricchi, poi ne riparliamo.
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