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I «banchieri di dio» non dispiacciono alle agenzie di rating. Gente così abituata a guardare il mondo dall’alto, forse, inizia a provare i sintomi dell’altitudine.
Non è stato comunque un fulmine a ciel sereno l’apprezzamento per Mario Monti e la sua squadra da parte di Fitch, anche se quel giudizio («ha l’opportunità di generare una sorpresa positiva»), addirittura caricato del compito di «far abbassare gli spread» in tutta Europa sembra un tantino esagerato. Anche perché «il drammatico aumento dello spread e dei rendimenti dei titoli di stato italiani riflettono una perdita di fiducia nella politica dell’Europa nel fronteggiare la crisi sistemica». Poi, inopinatamente perché in assenza di dati certi, ha dichiarato «probabile» che «l’Italia sia già in recessione».
Il riconoscimento di Fitch ha comunque aiutato per la sua parte il drastico calo dello spread sui titoli italiani, tornato ieri ben sotto quota 500 (492 punti), dopo una brutta risalita in mattinata. Il dato è significativo perché nello stesso momento saliva quello spagnolo (per la prima volta sopra i 500 punti), quasi azzerando la differenza tra Btp e Bonos decennali. Soprattutto, in controtendenza rispetto alla dinamica dei titoli francesi, che per la prima volta sfondavano la soglia dei 200 (erano appena 40 nella primavera scorsa), per poi ripiegare sul finale di giornata.
Una mano più robusta l’ha però certamente data la Bce. Non solo è tornata ad acquistare titoli dei paesi in difficoltà, ma ha lasciato circolare indiscrezioni su un possibile proprio prestito al Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che a quel punto potrebbe dare una mano per rafforzare la tendenza. una colossale partita di giro che si giustifica solo per il fatto che la stessa Bce – per vincoli statutari assurdi, posti all’atto della sua fondazione – non agisce da «prestatore di ultima istanza» (come invece fanno tutte le altre banche centrali, dagli Usa all’Inghilterra, al Giappone).
Fitch è stata però protagonista dei mercati anche per altri motivi. Nella notte di ieri aveva lanciato un allarme sulla solidità delle banche Usa, esposte al rischio di «uno shock negativo» se la «crisi del debito europea non viene risolta in modo ordinato». Giudizio che ha contribuito a mettere in apprensione per due giorni consecutivi la borsa di New York e, indirettamente, anche quelle poco coinvolte nelle vicende europee.
Ma è tutto il mondo delle banche a essere sotto pressione. Ieri Moody’s – altra agenzia di rating facente parte della «triade» anglosassone – ha rivisto al ribasso il rating di alcune banche regionali tedesche, in alcuni casi fino a tre livelli, precisando però che la nuova valutazione – stranamente – non ha a che vedere con la crisi del debito. Le banche interessate (BayernLB, LBBW, NordLB e Bremer Landesbank, il cui rating è stato ribassato di tre livelli; dovranno pagare di più per rifinanziarsi anche Helaba, HSH e SaarLB) svolgono un ruolo importante nelle economie dei land. La particolare struttura azionaria delle banche regionali tedesche – a maggioranza pubblica, in genere -dovrebbe proteggerle dall’esposizione al mercato creditizio interbancario; ma è improbabile che il governo tedesco possa intervenire a sostegno in caso di necessità. Le nuove regole stabilite dalla Germania per la liquidazione delle banche prevedono infatti una maggiore partecipazione degli azionisti alle perdite.
Le borse di tutto il mondo non hanno preso bene questa girandola di pessime notizie. La peggiore, in Europa, è stata inevitabilmente Parigi (-1,78%), seguita da vicini da Londra (-1,56), Milano (-1,43), Francoforte (-1,07).
Peggio ancora New York, con il Dow Jones – a due ore dalla chiusura – in perdita di quasi due punti percentuali, e il Nasdaq sotto di quasi 3. Il motivo? Beh, il debito pubblico Usa ha sfondato quota 1.500 miliardi di dollari. In pratica il 99% del prodotto interno lordo (Pil). Una situazione quasi italiana, anche dal lato politico: la super-commissione antideficit, fieramente divisa tra repubblicani e democratici, sta cercando un accordo per tagliare 1.200 miliardi di spesa. Se non ci riuscirà entro mercoledì, scatteranno «tagli automatici lineari».
Diciamo la verità. Sono queste situazioni quelle che aprono la starda a riflessioni come quella della Trilaterale (toh, chi si rivede!), che arriva a giudicare la dialettica parlamentare, anche se rigidamente «bipolare» come quella Usa, una «perdita di tempo». Sarebbe così semplice se dappertutto ci fosse uno stesso tipo di governo… Tecnico, naturalmente.
Non è stato comunque un fulmine a ciel sereno l’apprezzamento per Mario Monti e la sua squadra da parte di Fitch, anche se quel giudizio («ha l’opportunità di generare una sorpresa positiva»), addirittura caricato del compito di «far abbassare gli spread» in tutta Europa sembra un tantino esagerato. Anche perché «il drammatico aumento dello spread e dei rendimenti dei titoli di stato italiani riflettono una perdita di fiducia nella politica dell’Europa nel fronteggiare la crisi sistemica». Poi, inopinatamente perché in assenza di dati certi, ha dichiarato «probabile» che «l’Italia sia già in recessione».
Il riconoscimento di Fitch ha comunque aiutato per la sua parte il drastico calo dello spread sui titoli italiani, tornato ieri ben sotto quota 500 (492 punti), dopo una brutta risalita in mattinata. Il dato è significativo perché nello stesso momento saliva quello spagnolo (per la prima volta sopra i 500 punti), quasi azzerando la differenza tra Btp e Bonos decennali. Soprattutto, in controtendenza rispetto alla dinamica dei titoli francesi, che per la prima volta sfondavano la soglia dei 200 (erano appena 40 nella primavera scorsa), per poi ripiegare sul finale di giornata.
Una mano più robusta l’ha però certamente data la Bce. Non solo è tornata ad acquistare titoli dei paesi in difficoltà, ma ha lasciato circolare indiscrezioni su un possibile proprio prestito al Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che a quel punto potrebbe dare una mano per rafforzare la tendenza. una colossale partita di giro che si giustifica solo per il fatto che la stessa Bce – per vincoli statutari assurdi, posti all’atto della sua fondazione – non agisce da «prestatore di ultima istanza» (come invece fanno tutte le altre banche centrali, dagli Usa all’Inghilterra, al Giappone).
Fitch è stata però protagonista dei mercati anche per altri motivi. Nella notte di ieri aveva lanciato un allarme sulla solidità delle banche Usa, esposte al rischio di «uno shock negativo» se la «crisi del debito europea non viene risolta in modo ordinato». Giudizio che ha contribuito a mettere in apprensione per due giorni consecutivi la borsa di New York e, indirettamente, anche quelle poco coinvolte nelle vicende europee.
Ma è tutto il mondo delle banche a essere sotto pressione. Ieri Moody’s – altra agenzia di rating facente parte della «triade» anglosassone – ha rivisto al ribasso il rating di alcune banche regionali tedesche, in alcuni casi fino a tre livelli, precisando però che la nuova valutazione – stranamente – non ha a che vedere con la crisi del debito. Le banche interessate (BayernLB, LBBW, NordLB e Bremer Landesbank, il cui rating è stato ribassato di tre livelli; dovranno pagare di più per rifinanziarsi anche Helaba, HSH e SaarLB) svolgono un ruolo importante nelle economie dei land. La particolare struttura azionaria delle banche regionali tedesche – a maggioranza pubblica, in genere -dovrebbe proteggerle dall’esposizione al mercato creditizio interbancario; ma è improbabile che il governo tedesco possa intervenire a sostegno in caso di necessità. Le nuove regole stabilite dalla Germania per la liquidazione delle banche prevedono infatti una maggiore partecipazione degli azionisti alle perdite.
Le borse di tutto il mondo non hanno preso bene questa girandola di pessime notizie. La peggiore, in Europa, è stata inevitabilmente Parigi (-1,78%), seguita da vicini da Londra (-1,56), Milano (-1,43), Francoforte (-1,07).
Peggio ancora New York, con il Dow Jones – a due ore dalla chiusura – in perdita di quasi due punti percentuali, e il Nasdaq sotto di quasi 3. Il motivo? Beh, il debito pubblico Usa ha sfondato quota 1.500 miliardi di dollari. In pratica il 99% del prodotto interno lordo (Pil). Una situazione quasi italiana, anche dal lato politico: la super-commissione antideficit, fieramente divisa tra repubblicani e democratici, sta cercando un accordo per tagliare 1.200 miliardi di spesa. Se non ci riuscirà entro mercoledì, scatteranno «tagli automatici lineari».
Diciamo la verità. Sono queste situazioni quelle che aprono la starda a riflessioni come quella della Trilaterale (toh, chi si rivede!), che arriva a giudicare la dialettica parlamentare, anche se rigidamente «bipolare» come quella Usa, una «perdita di tempo». Sarebbe così semplice se dappertutto ci fosse uno stesso tipo di governo… Tecnico, naturalmente.
da “il manifesto”
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