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Metalmeccanica, recessione senza luce

Francesco Piccioni
La crisi e la cura, viste da dentro un settore chiave dell’economia italiana. La metalmeccanica rappresenta infatti il 50% della manifattura ed anche delle esportazioni. È in recessione da molti mesi e «non vede la luce in fondo al tunnel».
I dati dell’analisi congiunturale di Federmeccanica – presentati ieri mattina – sono secchi. Tutte le tendenze negative vengono confermate e per il prossimo futuro, guardando afgli ordinativi, nel migliore dei casi non ci sarà un ulteriore peggioramento. La produzione nel primo trimestre è caduta di un ulteriore 1,4% rispetto agli ultimi tre mesi del 2011; ma del 3,3 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
Peggiorano un po’ tutti i comparti (l’auto, ovviamente, con la Fiat in ritirata dal paese; ma anche i prodotti elettrici, a conferma che la frenata è dovuta soprattutto alla caduta dei consumi interni). E forse è molto più che un curiosità il fatto che il vero boom riguardi una merce atipica e il commercio con un paese particolare: sono praticamente raddoppiate le esportazioni di oro grezzo verso la Svizzera.
Che il cuore della recessione sia nella carenza di domanda nazionale è confermato dal drastico calo delle importazioni (-16,7%), mentre l’export – grazie soprattutto ai paesi europei fuori dalla Ue – hanno sostanzialmente tenuto, con un progresso del 5,3%. Abbiamo così il paradossale risultato che la bilancia dei pagamenti del paese, in questo settore, risulti in grande attivo: 12,7 miliardi, oltre il triplo di un anno fa. Ma c’è davvero poco da gioire…
In Europa siamo comunque in pericolosa compagnia. La meccanica tedesca va ancora alla grande, la francese e l’inglese sono stazionarie. A calare sono soprattutto Italia e Spagna, guarda caso i paesi che più hanno dovuto tagliare la spesa pubblica per migliorare il bilancio. È una sottile ironia dell’economia il fatto che la riduzione del «pubblico» diventi immediatamente una riduzione delle commesse del «privato». Dovrebbe far riflettere tanti editorialisti un tanto al chilo…
Sia il vicepresidente Roberto Maglione che il diretto generale, Roberto Santarelli, ammettono che «se non c’è un rilancio della domanda a livello europeo, è difficile che i singoli paesi possano riuscirci da soli». Ma se in tutta la Ue si impongono politiche «rigoriste» quel rilancio non ci sarà mai. Le speranza vengono dunque, anche per le imprese, dal G8 di Chicago, che ha di fatto «isolato» la Merkel. Anche se è presto per parlare di un’inversione di tendenza sulle politiche Ue. Ma il discorso principale si riassume in una battuta condivisa: «di solo rigore si muore». Diciamo che anche qui si ripete il mantra «coniugare il necessario rigore con misure per la crescita». Un ossimoro, in pratica. Ma nessuno ci fa caso, ormai.
In attesa delle decisioni europee, e preso atto che sia il governo che i partiti che lo sostengono sembrano «consapevoli» della necessità di cambaire passo, le imprese vorrebbero almeno tre cose: puntualità dello Stato nei pagamenti (si calcolano in 70-100 miliardi le somme dovute e non versate per merci e servizi), sbloccare il credito (di nuovo in crunch soprattutto per le piccole aziende) e far ripartire «il volano dell’economia»: infrastrutture (e quindi investimenti in gran parte pubblici), edilizia, ecc.
Il nodo, dal loro punto di vista, resta la «competitività»; non solo delle singole aziende, ma del «sistema paese». Partita difficile da giocare se la domanda è in calo (e quindi non favorisce investimenti per ottimizzzare il processo produttivo) e la «tassazione», tra imposte dirette e contributi sociali (il cosiddetto« cuneo fiscale»), è tale da «handicappare pesantemente» i margini. In questo quadro paga pesantemente dazio l’occupazione. A febbraio è stato registrato un calo dell’1,3% rispetto al 2011. Le ore di cassa integrazione, tradotte in unità lavorative, equivalgono a 185.000 metalmeccanici messi fuori dalla produzione. E per i prossimi sei mesi, visto l’andamento degli ordinativi, «sono attesi ulteriori ridimensionamenti degli organici». Che si tradurranno – è scontato – in una proporzionale «caduta della domanda interna». Ovvero avvitamento, recessione più profonda.
 
 
La strada stretta del nuovo contratto

Dietro i numeri spunta il problema politico: sarà rinnovato o no il contratto nazionale dei metalmeccanici? La situazione è stata complicata dai diktat di Marchionne prima e dall’uscita della Fiat da Confindustria, poi. Lasciando le imprese a metà del guado, oltre che Cisl e Uil senza più credibilità. Nel 2009 è stato fatto un nuovo contratto che stracciava quello sottoscritto soltanto un anno prima e firmato anche dalla Fiom. La quale ora ha presentato una propria piattaforma per il rinnovo – votata nelle fabbriche – non riconoscendo quello «separato».
Come se ne esce? Federmeccanica è combattuta tra due tentazioni. Da un lato riconosce la forza della Fiom nelle fabbriche e sa che una lunga stagione di conflitto potrebbe tagliare le gambe a un settore che resta comunque oltre il 20% sotto i livelli di produzione del 2008. Quindi coinvolgere le tute blu di Landini sarebbe utile e necessario. Dall’altra, però, c’è la possibilità di usare la crisi stessa per forzare definitivamente la mano, rinunicando a stipulare un nuovo contratto con chicchessia.
Dice Santarelli: «il contratto lo rinnoveremo se lo riterremo utile per la competitività delle imprese», a partire dalla «produttività». Altrimenti no. Cosa significa? Intanto un prolungamento degli orari di lavoro, ovvero delle ore «effettivamente lavorate». In fondo, l’art. 8 della «manovra d’agosto» (quella di Sacconi) permette di evitare qualsiasi obbligo di legge. Non è stato usato fin qui perché si era raggiunta questa intesa con l’accordo del 28 giugno. Ma se non otterranno ciò che vogliono…
Una via d’uscita per «ricucire» con la Fiom viene vista solo se «si riesce a discutere della rappresentanza». Ovvero di una legge che sciolga il nodo di chi rappresenta davvero chi lavora. Ma, avvertono le imprese, non è il contratto dei metalmeccanici il luogo dove si risolve». Strada ultra-stretta, dunque. Fr. Pi.
 

da “il manifesto”

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