E’ il segno che la crisi va rompendo, oltre che i canali di continuità tra i mercati (oggi più veicolo di speculazione e “contagio”, che non di condivisione dei vantaggi per il capitale “snazionalizzato”), anche quelli dell’ideologia politica. Che torna a essere un fattore di compattamento (“mobilitazione” sarebbe dire troppo, per l’imprenditoria italian…) in vista della “difesa” del proprio “spazio vitale”.
Come sempre, in questa analisi che proponiamo dal Sole 24 Ore, c’è molto di vero, ma manca molto di più, ed egualmente vero. Del resto, i segnali di frantumazione del “mercato globale” si potevano intravedere già nel sostanziale fallimento di tutti i vertici Wto. Senza una regolamentazione efficace del commercio globale, tende a prevalere l’interesse di area monetaria, che ha sostituito abbastanza stabilmente quello di “nazione”.
Unica eccezione gli Stati uniti (e la Cina) che si sono comportati fin dall’inizio della crisi attuale come una “naziona nazionalista” che usava la libertà di mercato per scaricare la propria crisi – lì è esplosa, in fondo – sui partner e concorrenti. La sostanziale e sostanziosa “svalutazione competitiva” del dollaro, insieme all’operare altrettanto nazionalistico delle grandi banche d’affari Usa e delle agenzie di rating (sempre e tutte Usa), ha funzionato per mantenere entro i limiti del sopportabile lo shock per gli statunitensi.
Al contrario, la politica gretta della Germania merkeliana, aiutata dal meno brillante dei presidenti francesi della V Repubblica, ha disseminato crisi e distruzione all’interno dell’Europa.
Ora la “svolta”, che dovrebbe – negli auspici di Confindustria – trovare forma istituzionale già nel prossimo vertice del 29 giugno.
E’ l’ultimo grido degli imprenditori nostrani: Europa o morte! Poca fantasia…
Naturalmente questo dovrebbe suonare come monito per tutti quei compagni molto sbrigativi nell’analisi, che tendono a confondere l'”antimperialismo” con l'”antiamericanismo”. Il rischio, non infrequente nella storia kitaliana ed europea, è di ritrovarsi all’improvviso a marciare contro un “nemico comune”, con il padrone in testa alla colonna.
Il Wall Street Journal: «L’Italia è moribonda». Ma la verità è che gli Usa temono gli Stati Uniti d’Europa. Più forti per Pil, export e con meno debito
«L’economia italiana è moribonda», scriveva martedì sera il sito del Wall Street Journal, proprio mentre Monti era impegnato in un delicato vertice a Palazzo Chigi sulla crisi dell’Eurozona. Oggi, lo stesso giornale, nella sua edizione cartacea, ha aperto con un articolo in prima pagina dedicato al Premier Monti, in cui si spiega come sia finita «la luna di miele tra gli italiani e il premier Monti».
A poche ore di distanza il Financial Times ha fatto sponda. «Mamma mia, ci risiamo»: con questo incipit la testata inglese è tornata a occuparsi della crisi italiana in un editoriale dal titolo «Le onde che sciabordano alla porta di Roma».
Lasciando da parte la visione britannica, da sempre euroscettica, che cosa spinge i più autorevoli opinionisti degli Stati Uniti – proprio mentre il loro presidente Obama segue con apprensione l’evoluzione della crisi dell’eurozona – ad attaccare l’Italia e indebolire così le già minate fondamenta dell’euro?
Alle origini della crisi
In molti hanno parlato di un attacco all’Italia. Si tratta di qualcosa in più di un’ipotesi. Ma la spiegazione di quello che sta accadendo sui mercati va forse ricercata nella scintilla che ha scatenato le recenti crisi in Europa: la crisi dei mutui subprime, negli Stati Uniti. L’evento non poteva che essere scatenante. E non poteva non travolgere il già fragile e indebitato comparto finanziario europeo.Perché gli Stati Uniti non tifano Europa
Se l’economia dell’Eurozona è in ginocchio, quella degli Stati Uniti d’America non è in piedi. Così, al di là delle dichiarazioni ufficiali, anche l’America confida, per il suo rilancio, in un’Europa più debole che in forze. Anche perché gli Stati Uniti d’Europa – qualora il processo d’integrazione arrivasse davvero a compimento – sarebbero un competitor molto agguerrito. Con fondamentali anche migliori di quelli degli Usa. Come dimostrano i dati aggregati dei 27 Paesi dell’Unione.Il confronto tra i fondamentali
Ecco i numeri, elaborati sulle statistiche Eurostat (si veda la tabella). Prendendo i dati 2011, si scopre che gli Stati Uniti d’Europa hanno un Pil maggiore, in termini assoluti, rispetto agli Usa. La crescita annuale è simile (+1,5% per l’Europa, +1,7% per gli Usa). Ma soprattutto gli Stati Uniti d’Europa avrebbero un debito pubblico inferiore, sia in termini assoluti, che in % rispetto al Pil: gli Usa hanno infatti un indebitamento pari al 114,32% del Pil, gli Stati Uniti d’Europa si fermano all’82,5%.Gli Stati Uniti d’Europa – che vanterebbero una popolazione di 502milioni di persone, contro i 313 degli Usa – sarebbero davanti anche in quanto a valore dell’export: 1.914 miliardi di dollari, contro 1.473.
Osservando questi dati, la domanda sorge spontanea: attaccare l’economia moribonda dell’Italia non è forse un tentativo per indebolire la più florida (anche se per ora solo virtualmente) economia degli Stati Uniti d’Europa?
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