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Euro. Piani di uscita dall’alto e dal basso

Mettiamo qui a confronto la sintesi serale dell’Ansa (il “precotto” da cui gran parte della stampa italiana trae le sue “riflessioni”, spesso copiate parola per parola), una sintesi di giornata da “il manifesto” di tutt’altro orientamento e un editoriale finalmente “problematico” dal Corriere della sera.

Sale il timore per un’uscita della Grecia dall’euro e i governi dell’Ue mettono a punto il ‘piano B’, che finora avevano sempre negato di prendere in considerazione: secondo quanto rivela il tedesco Sueddeutsche Zeitung, confermando quanto già la Finlandia aveva ammesso proprio oggi, «L’Ue si arma contro il crash dell’euro», lavorando ad una strategia che le eviti di finire travolta dal ritorno di Atene alla dracma.
Lo scenario che i governi europei stanno prendendo in considerazione, secondo il quotidiano bavarese, è che la situazione in Grecia peggiori sempre di più, che la troika faccia slittare il suo report ad ottobre, e che le neghi nuovi aiuti: in quel caso, ad Atene non resterebbe che tornare alla vecchia moneta. Ma una simile eventualità, scrive il giornale, comporterebbe la necessità per gli altri Stati europei di correre ai ripari con un pacchetto per rafforzare il resto dell’unione monetaria.
«Si discute della possibilità di un aumento dei programmi di aiuto a Irlanda e Portogallo per accogliere lo shock dei mercati, allo stesso tempo Spagna e Italia potrebbero fare una richiesta preventiva di credito all’Esm, il che sarebbe a sua volta un presupposto perchè la Bce possa sostenere i due paesi con un acquisto massiccio dei titoli di Stato», scrive la SZ. «A questo si dovrebbe aggiungere anche l’annuncio che i paesi dell’euro intraprenderanno passi concreti per una sorveglianza unica e un cambiamento strutturale delle banche – si legge ancora – e un coordinamento e una sorveglianza nella politica di bilancio». «Nel frattempo – conclude l’articolo – la Grecia sarebbe appoggiata con aiuti finanziari di bilancio Ue per un nuovo inizio economico».
La rivelazione del quotidiano tedesco conferma quanto già il ministro finlandese degli Esteri Erkki Tuomioja, fortemente criticato dal suo stesso governo, aveva detto oggi: «Dobbiamo prepararci alla possibilità di una rottura della zona euro», e «i leader finlandesi hanno pronto un piano operativo». L’uscita non era piaciuta ad Helsinki, dove il ministro degli affari europei Alexander Stubb si era affrettato a smentirlo: «l’ipotesi» di Tuomioja «non riflette la posizione del governo» che «è impegnato al 100%» a sostegno dell’euro. E così il capo della diplomazia finnica, un socialdemocratico, era finito nella lista dei ‘falchì anti-euro, che si fa sempre più lunga.
Appena ieri gli attacchi a Draghi degli euroscettici tedeschi Willsch (Cdu) e Schaeffler (Fdp), la richiesta del ministro degli esteri austriaco Spindelberger di «un meccanismo che consenta di espellere qualcuno» dall’euro e la minaccia dei socialisti olandesi di sottoporre a referendum la ratifica del fiscal compact che impone l’austerity.
Anche la reazione di Bruxelles non si è fatta attendere. Il portavoce di Barroso, Olivier Bailly, ha rotto la consuetudine di non commentare le uscite dei politici per ribadire che per la Commissione europea «l’euro è irreversibile», che «tutti i leader dell’eurozona, incluso il governo finlandese, all’ultimo consiglio europeo hanno preso il forte impegno a preservare l’integrità dell’euro», che Bruxelles non ha alcun piano per «la divisione dell’eurozona o per l’uscita della Grecia», nè si prepara a farlo perchè è suo «dovere» lavorare a favore dell’euro e non contro. Ma dopo la pausa di metà agosto la politica europea tornerà ad affrontare gli scenari peggiori. All’inizio della prossima settimana potrebbe già arrivare la richiesta spagnola di anticipare la prima tranche da 30 miliardi di aiuti per il salvataggio delle banche.

fonte: Ansa

Gli scettici del Grande Nord

Francesco Piccioni
Non è esploso ad agosto, come si temeva ancora poche settimane fa. Ma non passa giorno che l’euro non subisca colpi d’immagine durissimi.Il problema è che ad assestarglieli non sono i «paesi canaglia» con i conti pubblici in disordine e lo spread alle stelle, ma quelli ancora dotati della «tripla A».
Ieri, per capirci, hanno fatto a gara Finlandia e Germania. Su due piani diversi, ma decisamente convergenti.I finnici, pochi ma benestanti, hanno rivelato di essere già pronti per l’uscita dalla moneta unica. Non è stata l’uscita di un politicante di seconda fascia, tipo il leader dei «Veri finlandesi» (una sorta di Bossi decisamente sovrappeso), ma addirittura i ministri degli esteri e delle finanze. Il primo, Erkki Tuomioja, ha invitato tutti i paesi dell’eurozona a prepararsi all’esplosione: «è un evento che nessuno si augura nel nostro paese, ma dobbiamo tenerci pronti, è solo una questione di tempo; abbiamo dei piani per far fronte a questa situazione».
La sua collega alle finanze, Jutta Urpilaninen, ha voluto dire chiaramente alla Ue che il suo paese non è «disposto a restare a tutti i costi aggrappato alla valuta comune». Solo Alexander Stubb, ministro degli affari europei, se non altro per dovere di ruolo, ha cercato di rattoppare lo strappo «garantendo» che il suo governo «è impegnato al 100% nei confronti dell’euro». Il nervosismo finlandese viene di solito spiegato con il fatto che il paese (5,4 milioni di abitanti) non sarebbe in grado di accollarsi esborsi straordinari per aiutare paesi più grandi in difficoltà finanziarie. Ma sembra più importante il fatto che Nokia – ex regina dei cellulari e punta di lancia dell’hi tech del «grande Nord» – chiuderà tra poche settimane l’ultimo stabilimento produttivo in Suomi, trasferendo tutto in Cina e Vietnam. Altri costi, grandi risparmi, possibilità di risollevarsi davanti a competitor come Samsung e Apple. Ma per il Pil e le esportazioni finlandesi sarà un colpo non proprio secondario.
Il quotidiano economico Handelsblatt sembra invece diventato la tribuna dell’euroscetticismo tedesco. Ieri ha enfatizzato al massimo la contrarietà germanica al testo che la Commissione europea presenterà l’11 settembre (una data non proprio benaugurante per i «grandi progetti»). Dove si propone che la Banca centrale europea sostituisce quell’ectoplasma dell’Eba (l’autorità europea sulle banche, che fin qui ha brillato per inazione) e controlli in prima persona le banche dell’eurozona.
Che c’è di insopportabile, per la Germania? In fondo è una centralizzazione che loro stessi chiedono su tutti gli aspetti della vita finanziaria nell’eurozona… Questioni di sfumature, che riguardano interessi enormi. Il contrasto è su quali banche la Bce debba controllare. Se soltanto le maggiori 25, quelle di «dimensioni sistemiche» il cui andamento può avere effetti indesiderati e gravi sulla finanza continentale, oppure su tutti gli 8.400 istituti operanti? La Francia di Hollande ha premuto fin qui per la seconda opzione, ma questo metterebbe sotto controllo «straniero» anche la miriade di «sparkassen» (banche locali, regionali, di credito cooperativo, ecc) che in Germania raccolgono il grosso del risparmio privato. Gli argomenti contrari sembrano persino sensati: che bisogno c’è di «vigilare» su istituti di piccole dimensioni che non hanno neppure attività internazionali, ovvero non sono esposte a grandi rischi e non ne possono causare? ça «logica sistemica» che presiede alla costruzione forzosa dell’Europa finanziaria, però, impone che non si creino «doppi regimi», ovvero esenzioni dai controlli che possano facilitare un trasferimento di attività «vigilate» in ambiti che invece non lo sono.
Al di sotto della «forma» c’è però «la ciccia». Che gli euroscettici tedeschi hanno evidenziato al volo: «ecco l’ennesima trappola, vogliono i nostri soldi, anche quelli dei risparmiatori che si affidano alle casse di risparmio». La sintesi del liberale Frank Schaeffer è rozza e strumentale, certo, ma proprio per questo evidenzia il modo in cui alcune parti importanti dei «paesi forti» sono stati dentro la moneta unica: per capitalizzarne i vantaggi senza subirne i costi. Nulla di nuovo, per chi ha 150 di storia tra lombardo-veneto e regno di Sicilia.
Torna però attuale la previsione plumbea di «Mr. Doom», al secolo Nouriel Roubini. Il quale, ad un certo punto, ha cominciato a considerare più probabile che l’uscita dall’euro sia messa in pratica dai paesi «a posto», piuttosto che da quelli a pezzi. Certo, almeno in Germania dovranno fare i conti con Wolfgang Schaeuble, che ancora ieri ha considerato l’ipotesi finlandese «una catastrofe economica per la Germania, l’Europa, il mondo».

da “il manifesto”

Una nordica insofferenza

Nella virtuosa Olanda della «tripla A», sale la stella di Roemer, socialista post maoista, che definisce «un’idiozia» il fiscal compact e potrebbe vincere le prossime elezioni cavalcano il malcontento degli olandesi per le misure d’austerità del governo liberale dimissionario. Il caso olandese conferma che il disagio delle opinioni pubbliche nazionali rispetto alle politiche europee e verso le classi dirigenti sia ormai condizione generalizzata, che può dare libero sfogo a movimenti nazionalisti di varia natura, in grado di condizionare e stravolgere anche le linee guida di partiti di tradizione europeista.

Se questa è la conseguenza sociale e politica del dogma del rigore, varrebbe la pena di prestare ascolto al disagio, indipendentemente dal megafono che lo amplifica e lo strumentalizza. Magari per valutare se l’eventuale svolta a sinistra dell’Olanda — dopo quella francese e magari in vista di quella tedesca, sia pure con diversi approcci ideologici — possa rendere praticabili ricette alternative per la crisi dell’euro. Come ad esempio in Francia: non indifferenti alle urgenze del bilancio, ma più ridistributive e più attente a chi deve pagare il conto della crisi stessa. Il disagio coinvolge infatti Paesi virtuosi e Paesi in maggiore difficoltà, il Nord e il Sud del Vecchio Continente, le destre e le sinistre, i partiti e le loro correnti.
In Germania, la crisi della moneta unica apre contraddizioni laceranti sia nella Cdu sia nella Spd. Non è difficile immaginare il risultato di un eventuale referendum sugli eurobond, al punto che la Merkel finisce per sembrare almeno oggi una preziosa sponda della Banca centrale e dei Paesi in maggiore difficoltà.
Se anche la virtuosissima Finlandia fa apertamente sapere di avere preso in considerazione la rottura dell’euro — sia pure con contorno di smentite e correzioni a disastro mediatico avviato — è evidente la diffusione di altre forme di contagio (politico, sociale, ideale) oltre a quello della speculazione sulla moneta e di campagne di stampa contro l’euro.
Intanto, nessuno sembra disposto a dare un’ulteriore boccata d’ossigeno alla Grecia, nonostante che proprio la disperata Grecia abbia voluto rimanere in Europa.

In questo scenario, stanno emergendo con forza devastatrice i tre maggiori deficit della costruzione europea: deficit di governance istituzionale, deficit di coesione fra governi, deficit delle democrazie nazionali rispetto alle problematiche continentali. Un deficit, quest’ultimo, di funzionamento e adeguamento alle nuove sfide, che lascia irrisolti, o piuttosto in ostaggio di spinte centrifughe, le questioni del consenso, della sovranità, dell’interesse (e del bene) comune. Non casualmente viene spesso apprezzato il modello Francia, almeno fino a quando garantisce stabilità e maggioranze a un presidente con pieni poteri, comunque non al riparo da ondate di populismo e sovranismo, in passato costate care proprio alla costruzione europea.
Non casualmente, la «grande coalizione» può apparire come una rassicurante scorciatoia per condurre in porto riforme altrimenti improponibili o prigioniere di veti incrociati. Purtroppo per l’Europa, i tempi della politica sono più lenti dei tempi dei mercati, ai quali stiamo cedendo davvero sovranità, autonomia decisionale e coesione sociale che molti ritengono di difendere voltando le spalle all’Europa. Almeno fino ad oggi si continua, con l’ottimismo della volontà, a discutere sul «come» andare avanti, ma è inutile nascondersi la seduzione del «come tornare indietro».

da Il Corriere della sera

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