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I pentimenti tardivi dell’industria italiana

Anche oggi, come potete vedere qui sotto, si spara ad alzo zero contro un “rigore che uccide il malato”.
La cosa più interessante, come sempre, sono i dati portati a sostegno di questo tardivo ripensamento padronale. Quanto a “parametri di Maastricht”, infatti, l’eurozona sta decisamente meglio dei paesi più industrializzati. Rispetto a Usa e Giappone non c’è partita; ma quelli crescono, seppur lentamente, e contengono la disoccupazione.

Naturalmente può darsi benissimo che sia gli statunitensi che i giapponesi prima o poi paghino (specie i secondi) il prezzo di una politica di “stampaggio moneta” decisamente esagerata. Ma il punto fondamentale è un altro: è possibile “crescere” soltanto comprimendo il costo del lavoro e riducendo la spesa pubblica?

Chiaramente no. Usa e Giappone hanno in questi anni aumentato gli investimenti. Anche in Europa non tutti (anzi: non tanti, tra i soggetti più forti) hanno reagito alla crisi riducendo marchionnescamente gli investimenti. In Cina, addirittura, il tasso di crescita degli investimenti fissi è stato in media del 25,8% nel periodo tra il 2003 e il 2011. Chi investe, insomma, cresce; chi taglia e basta regredisce. È una delle più banali leggi dell’economia capitalistica.

Certo, in una crisi di sovraproduzione di capitale, non è semplice per gli imprenditori privati aumentare gli investimenti. Usa, Giappone e soprattutto Cina, infatti, fanno conto prevalentemente su investimenti pubblici, che in misura minore trainano anche quelli privati. L’Europa “tedesca” ha scelto la ricetta deflazionistica, che fin qui ha favorito il ridisegno della divisione continentale del lavoro in modo molto favorevole alla stessa Germania. Ma ora, come sempre, c’è il feedback di una scelta politica unilaterale: la Germania vende sempre meno nell’area che assorbe il 50% del suo export.

Europa al bivio, troppo rigore uccide il malato

Adriana Cerretelli

Spread in discesa, euro in rimonta sul dollaro. Sui mercati globali sembra tornato l’ottimismo sul futuro del l’eurozona dopo il complesso e sospiratissimo accordo della settimana scorsa sul debito greco e il via libera del Bundestag, dopo l’intesa, non meno sospirata, per sbloccare gli aiuti europei alle disastrate banche spagnole e dopo l’avvio dei negoziati per mettere una pezza anche all’emergenza Cipro.

In margine all’ennesima riunione dei ministri finanziari, ieri a Bruxelles si respirava un’aria un po’ più rilassata, la voglia di sperare finalmente nel principio della fine di una tormenta che da tre anni non dà tregua. Distensione legittima e perciò destinata a durare nel tempo oppure solo una breve pausa felice nell’impervia dinamica di una crisi che non passa, perché non sono risolte le cause che l’hanno generata?
I segnali positivi ci sono ma il fuoco continua a covare sotto le ceneri. In breve, il riposo del guerriero deve attendere. E nessuno in Europa può illudersi di potersi sedere sugli allori. Al contrario, sono molte le trappole in cui la crisi potrebbe tornare a inciampare. La disponibilità di Angela Merkel verso una parziale ristrutturazione del debito greco dopo il 2014-15, sempre che Atene faccia il suo dovere, è un’importante apertura di credito ai partner Ue più che ai diretti interessati, chiamati a risolvere il problema oggi, non dopodomani.

L’operazione partita ieri di riacquisto del debito greco svalutato è lo snodo fondamentale del piano per garantirne la sostenibilità al 124% nel 2020 ma resta una scommessa al buio. Se sarà o no un successo si saprà soltanto il 13 dicembre, proprio alla vigilia del nuovo vertice europeo che in teoria, come vuole soprattutto il cancelliere tedesco, dovrà aprire un nuovo cantiere di riforme istituzionali molto ambiziose per l’eurozona e per l’Unione.
Nella malaugurata ipotesi che il buy-back si rivelasse un flop, l’ipoteca ellenica tornerebbe a turbare i sonni del club. Che peraltro ha già diverse altre gatte da pelare.
Il fresco downgrade dei due fondi salva-Stati dell’eurozona, Efsf e Esm, seguito a quello della Francia, non rappresenta un segnale di fiducia nell’area e di sicuro è il preludio di future emissioni di bond più care. Neanche l’accordo sulla vigilanza bancaria unica, quando arriverà, sarà risolutore.

Non è assodato infatti che garantirà davvero il divorzio tra la crisi del debito sovrano e quella bancaria, essenziale per poter archiviare quella dell’euro. Perché non si sa quante delle 6mila banche dell’Unione cadranno sotto la sorveglianza della Bce e quante resteranno sotto quella nazionale, comprese quelle fuori dall’area euro. Né quando il nuovo sistema entrerà in vigore, quando quindi l’Esm potrà diventare a tutti gli effetti operativo.
Tra tutte le incognite del teorema della normalizzazione europea, la più difficile da sciogliere si chiama comunque crescita. Di cui si evita accuratamente di discutere o se lo si fa, come ieri il tedesco Wolfgang Schauble davanti all’Europarlamento, è per ribadire che «una politica di sviluppo sarà possibile solo con conti pubblici sostenibili, per questo insistiamo sempre sulla riduzione del debito».

Eppure, se paragonato a quello di Stati Uniti e Giappone, lo stato di salute finanziaria dell’eurozona appare decisamente già buono: deficit di bilancio al 3,3% medio quest’anno e al 2,6% il prossimo contro 8,5% e 7,3% americano e 8,3 e 7,9 nipponico. Per il debito 93% contro 140% Usa e 200% di Tokyo. Conti correnti in attivo (+1,1% e 1,5% nel biennio) contro il passivo Usa del 3,1% e 2,9% e un attivo nipponico minore (0,9% e 1,1%). Però l’Europa è in recessione (-0,4% nel 2012 se andrà bene), gli Stati Uniti crescono del 2,1% e il Giappone del 2 per cento. I nostri investimenti sono in calo del 4,5%, quelli Usa salgono del 5%, la disoccupazione viaggia oltre l’11%, quella americana supera di poco l’8%. Sono dati che dicono che il rigore va bene ma troppo rigore può uccidere il malato e in prospettiva anche l’euro, perché gli alleva in seno divergenze che alla lunga potrebbero spaccarlo. Tra il 2008 e il 2012, dal fallimento di Lehman Brothers in poi, infatti, il Pil in Francia è caduto dello 0,8%, in Italia del 6,8%, in Spagna del 5,4% ma in Germania è salito dell’1,7% con i disoccupati in calo del 2,4% mentre in Francia aumentavano del 2,5%, in Italia del 4,1%, in Spagna del 15,5 per cento. Il tutto mentre l’indice della produzione manifatturiera Ue ieri ha segnato il 16mo calo mensile e il rischio povertà, avverte Eurostat, colpisce 120 milioni di europei, uno su quattro.

Per quanto tempo riuscirà a stare insieme l’Europa stritolata dall’eccesso di austerità senza respiro, prigioniera dell’estremismo tedesco che la condanna al forzato dimagrimento nello sviluppo staccandole anche la spina degli investimenti, nazionali e europei, in infrastrutture, ricerca e innovazione, in breve nel futuro? E come recuperare competitività globale senza un’adeguata politica industriale e invece con una mano legata dietro la schiena e l’altra votata esclusivamente a risanare i conti con una furia ossessiva ma alla prova dei fatti controproducente? Più passa il tempo e più diventa evidente che non è tanto la sindrome greca a minacciare la tenuta dell’euro quanto la cecità di timonieri unidirezionali. E rigidi nel mondo della flessibilità globale.

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