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Disoccupazione e flessibilità. L’ideologia di Confindustria

È accaduto con la “riforma Fornero” del mercato del lavoro, dello scorso luglio.

Una riforma infame, abbiamo scritto subito. Non solo perché cancellava di fatto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma perché aggravava la precarietà contrattuale.

Non solo. In accoppiata cone l’altrettanto infame “riforma delle pensioni” – ancora su disegno di Elsa Fornero – era facilmente prevedibile che avrebbe prodotto a) un aumento della disoccupazione, visto che le imprese venivano autorizzate a licenziare “individualmente” i dipendenti sgraditi e invalidati dal lavoro stesso, b) avrebbe aggravato la disoccupazione specialmente giovanile, visto che gli quelli anziani veniva inchiodati al posto di laovro fino a 67 anni (dai 62 di prima, con il barocco calcolo delle “quote”, che sommavano anni di lavoro ed età anagrafica).

Fenomeni puntualmente verificatisi, addirittura accentuati dalla crisi globale e specificamente europea.

Delle persone intelligenti a questo punto tirerebbero le prime somme, chiedendosi cosa c’era di sbagliato della “teoria” scritta sui manuali della Fornero e di Confindustria. Al quotidiano di Confindustria, dove certamente abbondano le persone intelligenti (lo diciamo senza alcuna ironia), se lo sono chiesti. Ma hanno deciso che l’errore stava nella “insufficiente flessibilità in entrata”, ovvero nella “poca precarietà contrattuale”. Cosa che scoraggerebbe le imprese dall’assumere. E qui bisogna ricordarsi che anche l’intelligenza è un danno, se non si coniuga con l’onestà intellettuale.

In Italia – molto più che negli altri paesi europei, tranne forse la massacrata Grecia – le aziende possono scegliere tra oltre 40 forme contrattuali precarie (legalizzate dal “pacchetto Treu” di centrosinistra, prima, e dalla “legge 30” berlusconiana, poi). È insomma materialmente impossibile non trovare quella che fa più al caso del singolo imprenditore. Semmai ci può essere un po’ di confusione – o di pasticci – per il fatto che sono troppe ed è facile sbagliare “modello”…

La “riforma Fornero” ha aggravato la situazione, allentando ulteriormente i vincoli complessivi senza nemmeno restringere – “per equità”, come si usava dire allora – l’uso abnorme e farsesco delle “partita Iva” monocommittenti per diversi anni consecutivi.

In cosa dunque vengono “limitate” le aziende che vogliiono assumere?

Non viene detto. Si prende atto che l’apprendistato è un istituto “di fatto inutilizzato”, perché prevede – sia pur diluita verso un orizzonte lonatno nel tempo – l’assunzione “regolare”. Ma questa constatazione andrebbe accompagnata da una critica verso l’eccessivo opportunismo delle aziende, che prediligono di gran lunga forme contrattuali che non prevedono per loro alcun obbligo. Non a caso l’unico tipo di contratto in crescita è quello a “tempo determinato”, quando finisce sei fuori e ne trovo un altro. Sarebbe però chiedere troppo a degli analisti che ricevono lo stipendio dal quotidiano delle imprese…

E allora ecco i dati – tutti negativi – conditi da spiegazioni implausibili.

Si scopre che c’è una “terza fascia” di disoccupati cronici, oltre ai giovani e alle donne; e sono i lavoratori che hanno perso l’occupazione ma sono ritenuti troppo “anziani” per trovarne un’altra. Che nemmeno “l’interinale” è ritenuto abbastanza flessibile, ecc. Eppure, quando un giornalista si sente dire “meglio il subappalto che il contratto a termine” dovrebbe scattare in cui la consapevolezza che è stato superato un certo limite. E il limite è rappresentato dal fatto che le aziende italiane, oggi, si sentono di poter “competere” soltanto se non pagano il lavoro quanto si dovrebbe (nemmeno il “minimo vitale”, insomma), non versano contributi previdenziali (facendo perciò saltare tutto il sistema Inps). non sono costrette a mantener stabili i livelli occupazionali.

Vi riportiamo qui ben tre articoli del Sole24Ore di oggi che battono tutti sullo stesso tasto: diminuisce l’occupazione perché le forme contrattuali non sono abbastanza flessibili.
Ideologia allo stato puro, che deve nascondere sia la dimensione della crisi che le sue cause.
Ma applicando ricette ideologiche a una realtà in crisi, si ottiene quasi senpre il risultato opposto. E si vede…

Da luglio persi 302mila posti. In crescita i giovani disoccupati

A luglio 2012 il numero di occupati superava di poco quota 23 milioni (23.025.000, per l’esattezza). A dicembre si è scesi a 22 milioni e 723mila unità I dati sono dell’Istat ed evidenziano come dall’entrata in vigore della riforma Fornero (18 luglio) – in sei mesi – l’occupazione sia diminuita di ben 302mila unità. Il calo è stato poi continuo, di mese in mese, con un vero e proprio picco registrato tra novembre e dicembre quando gli occupati sono scesi di 104mila unità. A luglio il tasso di disoccupazione era al 10,7%, a dicembre è salito all’11,2%, e il numero di disoccupati è passato da 2 milioni e 764mila unità (a luglio) a 2 milioni 875mila (a dicembre), con una crescita quindi di 111mila unità. Mentre il tasso di disoccupazione giovanile (15-24enni) è salito nei sei mesi di più di un punto percentuale (da 35,3% a 36,6%).

Certo, la grave recessione mondiale ha influito su queste performance. Ma anche la riforma Fornero, che ha ingessato oltremodo la flessibilità in entrata, non ha aiutato. A dicembre, ha ricordato l’ultimo comunicato sull’occupazione diffuso dall’Istat lo scorso 1° febbraio, i giovani nella fascia tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro si sono attestati a quota 606mila e rappresentano il 10% della popolazione in quella fascia d’età. Il calo dell’occupazione ha invece riguardato sia gli uomini sia le donne, dimostrando come stia facendo breccia nel nostro mercato del lavoro “una terza componente della disoccupazione”. Oltre cioè ai ragazzi – il cui ingresso in azienda è bloccato per via della riforma delle pensioni che ha allungato l’età pensionabile e costretto a rimanere di più in azienda – e alle donne che da inattive (si legga “scoraggiate”) per rimpinguare i bilanci familiari si mettono a cercare lavoro (ma non lo trovano perché la domanda è ai minimi termini) ci sono i lavoratori che hanno perso il lavoro e fanno fatica a trovarne un altro. Si tratta di una emergenza nuova, e che va letta anche alla luce delle difficoltà delle imprese sul fronte occupazionale (oltre ovviamente a servizi per l’impiego estremamente inefficienti – collocano appena 3 lavoratori su 100 – ha ricordato qualche tempo fa l’Isfol).

E la situazione nel futuro non sarà affatto migliore. Come ha ricordato l’ultimo bollettino della Banca d’Italia (gennaio) nei prossimi mesi si assisterà a una ulteriore flessione della domanda. Il tasso di posti vacanti, già basso, si è ancora ridotto (da 0,7 a 0,5 per cento delle posizioni lavorative attive nel terzo trimestre) e le inchieste congiunturali condotte in dicembre dall’Istat e dalla Banca d’Italia in collaborazione con Il Sole 24 Ore segnalano in prospettiva un nuovo calo della manodopera dipendente.

Nei primi tre mesi del 2013 (da gennaio a marzo, cioè) le imprese dell’industria e dei servizi hanno previsto di rinunciare a 80.200 posizioni (si veda il «Sole24Ore» di ieri). L’indagine del sistema informativo «Excelsior» di Unioncamere e ministero del Lavoro mostra chiaramente tutte le difficoltà dei datori di lavoro nell’utilizzo dei nuovi contratti (rivisti dalla legge 92), e come, realisticamente, «continui a regnare l’incertezza».

Il contratto di apprendistato, su cui la riforma Fornero ha puntato come canale privilegiato d’ingresso al lavoro, rimane pressochè inutilizzato. Nel terzo trimestre 2013 ne saranno attivati appena 8.800 (il 3,9% dei flussi in ingresso programmati totali nel periodo). Addirittura nel secondo trimestre 2012 (prima quindi dell’arrivo della riforma Fornero) se ne attivavano di più, 10.300. Il giro di vite sulle forme contrattuali “autonome” ha di fatto ridotto questi rapporti: nel quarto trimestre 2012 toccavano quota 60.400, nel primo trimestre 2013 ci si ferma a 58.200. Particolarmente netta è stata la flessione delle collaborazioni a progetto (-11mila). Rispetto al primo trimestre 2012 si sono ridotti di 12.700 unità i contratti interinali (molte aziende li reputano ancora troppo onerosi). Mentre l’unica tipologia di contratto che a livello tendenziale è cresciuta (primo trimestre 2012 su primo trimestre 2013) è il contratto a tempo determinato: da gennaio a marzo ne saranno attivati quasi 23mila, 5mila in più rispetto al primo trimestre 2012 (+28,1%). (Cl. T.)

Così la legge Fornero non aiuta il lavoro

di Nicoletta Picchio

ROMA – È stato uno dei provvedimenti più discussi del governo Monti. E ora l’argomento diventa uno dei temi della campagna elettorale. Posizioni diverse, ma comune denominatore: la riforma del mercato del lavoro va modificata, se non addirittura messa del tutto da parte, come dice il centro-destra.

Obiettivo di Mario Monti, come aveva annunciato nei primi discorsi in Parlamento, era superare il dualismo tra chi è dentro il mercato del lavoro, e beneficia di molte garanzie, e chi è invece fuori, bloccato nella precarietà. Buone le premesse, quindi. Negativi però i risultati. La legge non funziona, ha irrigidito il mercato del lavoro, condizionando e aumentando i costi della flessibilità in entrata, a danno dell’occupazione. In una fase di crisi, tra l’altro, in cui la domanda di lavoro è bassa. Sta di fatto che il contratto di apprendistato, che doveva essere la via maestra all’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, non decolla; i vincoli dei contratti a progetto, dei contratti a termine rendono le imprese molto prudenti, se non proprio restie ad utilizzarli. E gli interventi sui voucher, diffusi in agricoltura, li hanno resi praticamente inutilizzabili. Così come le condizioni messe sulle partite Iva, e il rischio che scatti la presunzione di lavoro subordinato se non si rispettano tutti i paletti, tengono le aziende lontane. A danno di chi cerca lavoro.

Bisogna cambiare, visto anche l’aumento forte della disoccupazione. Per il ministro del Welfare, Elsa Fornero, non può essere la sua riforma, entrata in vigore a luglio dell’anno scorso, ad aver provocato la crescita dei disoccupati. Ma è un dato di fatto che le imprese, davanti all’irrigidimento delle regole, alla loro complessità e alla difficile congiuntura, hanno preferito tagliare. Anche perché la minore flessibilità in entrata non è stata bilanciata da una adeguata flessibilità in uscita.
Il decreto Sviluppo, varato a luglio, proprio in contemporanea rispetto all’entrata in vigore della riforma, ha già introdotto una serie di alleggerimenti sui punti più contestati, contratti a termine, partite Iva, somministrazione, ma ha creato moltissimi distinguo che hanno resto il quadro complessivo assai complicato.

Il nuovo contratto a tempo determinato è uno dei punti su cui le aziende sollevano più riserve. Tra l’altro i dati vedono l’Italia più in basso rispetto agli altri paesi (12,8% noi, 14,7 la Germania, 15% la Francia, 24,9 la Spagna). Il costo è stato aumentato dell’1,4% a carico delle imprese per finanziare l’Aspi, la nuova indennità di disoccupazione. Non serve il cosiddetto “causalone” ma il contratto non deve durare più di 12 mesi e non è rinnovabile (può proseguire oltre la scadenza fino a 30 o 50 giorni se la durata iniziale è inferiore o non oltre i 6 mesi). Tra un contratto a termine e l’altro devono passare 60 giorni per i rapporti fino a 6 mesi e 90 per quelli oltre (il decreto Sviluppo ha inserito modifiche per gli stagionali). Sull’apprendistato è stata posta la condizione che debbano essere confermati almeno il 30% dei rapporti di apprendistato cessati nei 36 mesi precedenti alla data di assunzione, percentuale che sale al 50% dal 2015. Inoltre è rimasto in piedi il problema del rapporto con le Regioni per la formazione: questa tipologia di contratto, quindi, non decolla.

Sulle collaborazioni a progetto, si sono stretti i vincoli sul progetto (deve essere unitario, prima si poteva fare un contratto per singoli segmenti). E anche sulle partite Iva c’è stato un complesso giro di vite: senza particolari requisiti scatta la presunzione di lavoro subordinato. A questo si aggiunge la preoccupazione delle parti sociali che il nuovo meccanismo di tutele sia adeguato in questa fase di grave crisi economica. Tutti problemi che il prossimo governo si troverà sul tavolo.

La priorità dimenticata

Alberto Orioli

Il fisco è diventato il tema della campagna elettorale. Ha preso il posto del lavoro che invece doveva essere – a detta di tutti i partiti in lizza – il vero argomento del confronto politico. Sulle tasse è facile promettere miracoli, sul lavoro no. Il bluff sarebbe subito percepibile nel Paese dove metà dei giovani meridionali è senza impiego, dove il tasso di disoccupazione è al 12%, dove la richiesta di cassa integrazione raddoppia proprio mentre mezzo milione di cassintegrati sta per perdere il sussidio e dove 500mila giovani contrattisti a termine sono a casa in attesa di revisione della legge Fornero.

È il lavoro il vero tema per una discussione seria sui programmi dei partiti, ma non si presta agli slogan o alle trovate da talk show. Dal 2007 a oggi l’occupazione ha perso 1,5 milioni di unità e la disoccupazione è raddoppiata. Chi può si fa migrante e cerca fortuna oltreconfine esportando ciò che ha di meglio, il proprio cervello, apprezzato fuori, sprecato in patria.

Il lavoro è un po’ come la libertà: ne comprendi il valore – valore sociale, di cittadinaza oltre che meramente economico e di sopravvivenza materiale – soprattutto quando lo perdi. E il racconto dell’Italia d’inizio 2013 è quello di un Paese sferzato dai colpi (magari finali ma per questo più duri) della recessione. Il dramma sociale non è diventato ancora rivolta perchè funziona un sistema di ammortizzatori sociali prorogati in deroga (ma fino a quando?); perchè il sommerso fa affluire quella micro-liquidità e quel quasi-lavoro a un sistema prosciugato dal credit crunch e fuggito nell’economia informale e grigia; perchè le famiglie riescono ancora ad attutire i colpi della recessione sulle nuove generazioni, con i nonni a fare da “mecenati” ai nipoti e da “badanti economici” ai figli. Ma tutto ciò è solo un equilibrio instabile, un carpe diem fatto di una lunga sequenza di istanti precari senza sguardo lungo, senza prospettiva per i singoli e per il Paese. Lavoro significa modello di sviluppo: qual è la politica industriale dell’Italia? Quale la configurazione della logistica? Quale il posizionamento nelle infrastrutture a cominciare da quelle digitali? Qual è la politica per il rilancio dell’edilizia e della manutenzione delle città e del territorio? Quale la politica energetica?

Le risposte a queste domande disegnano l’idea-archetipo che una nazione ha del lavoro. Se l’Italia si guarda allo specchio scorge un Paese invecchiato in uno stereotipo astratto, figlio del giuridicismo anni 70 o, peggio, della mistica del conflitto sociale tra capitale e lavoro. La riforma Fornero – così come è uscita dal Parlamento dopo spinte e controspinte dei partiti della «strana» maggioranza del Governo Monti – non dispiega una sufficiente carica riformista e anzi accentua l’impatto negativo della recessione. Se la riforma pensioni è stato il sigillo del coraggio del Governo Monti, la riforma del lavoro resterà come eredità malata. L’occupazione non si fa per decreto, ma per decreto si può spaventare (e molto) chi deve fare le assunzioni. È ciò che è accaduto. Le correzioni in tema di flessibilità sono diventate distorsioni in un mercato già difficilissimo. Dai contratti a termine ai voucher per l’agricoltura, passando per la strage delle partive Iva (anche “buone”) e delle collaborazioni il lavoro è sparito, congelato dal terrore di chi assume nel vedersi trasformato un accordo per un lavoro di poche ore in un contratto a vita. La riforma era stata pensata (anche nella sua potenziale emendabilità) per una situazione di normalità economica, facile alla sperimentazione. L’oggi invece non consente esperimenti, ma propone l’urgenza bruciante del salvare il salvabile. Forse è per questo che la campagna elettorale si tiene discosta da questa tragedia. Parlarne significa esplicitare, ad esempio, quante e quali risorse destinare a questo argomento o, meglio, significa scegliere cosa salvare e cosa no. Il Pdl propone la detrazione come credito d’imposta dei contributi dei primi 5 anni dei giovani neoassunti e la detassazione totale dei primi 4 anni per gli apprendisti.

Un’agenda per punti, senza crucci di copertura e di fattibilità. Il Pd vuole il lavoro al centro della legislatura e parla di «nuova natura del conflitto sociale» e propone di «alleggerire il peso fiscale su lavoro e impresa» aumentando il carico fiscale sulla rendita nonchè di spezzare la spirale perversa bassa produttività-bassi salari aumentando poi incentivi all’occupazione femminile. Un programma un po’ generico dalla forte evocatività ideologica. La lista Monti fa sua la proposta Ichino che rivoluziona il corpus di norme del diritto del lavoro con un drastico taglio al numero di leggi e con un contratto unico a garanzie e tutele modulate sulla base dell’anzianità aziendale del lavoratore e con un “costo” per la licenziabilità crescente al crescere dell’anzianità lavorativa. Un “riformismo rottamatore” finora considerato socialmente insostenibile da imprese e sindacati.

Il nesso tra lavoro e fisco è evidente. Il fatto che la campagna elettorale abbia sovrapposto i temi ha finora evitato ai contendenti di dover dettagliare dove si trovino le risorse per le nuove idee e come debba essere modulato il carico delle tasse. La prima vera riforma sarà comprendere che il lavoro non è una gabbia di regole, ma il frutto di idee che diventano realizzazioni e creano ricchezza e occupazione. Quindi “istinti” e “incontri” da liberare da vincoli normativi e gravami fiscali. Meno Irapef e meno Irap, dunque. In un quadro di tenuta dei conti pubblici e di equità sociale. È difficile, ma è proprio per queste che serve la politica.

Quando l’impresa preferisce il subappalto alle assunzioni

di Vera Viola

CASALNUOVO (NA) – «Abbiamo bisogno di tre giovani programmatori: in altri tempi avremmo proposto loro un contratto a progetto, oggi preferiamo subappaltare parte del lavoro a una società esterna, perché portare giovani dentro l’azienda è diventato davvero difficile».

La testimonianza diretta di Antonio Ascione, presidente della Sms Engineering, società di software di Casalnuovo, in provincia di Napoli, rivela chiaramente tutte le difficoltà dettate da un costo del lavoro elevato e da un mercato con regole, dopo l’ultima riforma, ancora più rigide «In tempo di crisi – giustifica Ascione – assunzioni a tempo indeterminato o anche determinato imporrebbero impegni duraturi e pesanti che non possiamo assumere».
La Sms Engineering, nasce a Casalnuovo nel 1998, per iniziativa di tre giovani amici appena laureati: Antonio Ascione, che oggi è il presidente, Francesco Castagna, amministratore delegato, Massimiliano Canestro, vicepresidente, a cui successivamente si aggiunge Rosangela Capasso con le mansioni di direttore tecnico. Si parte con piccoli lavori che consistono nella programmazione di sistemi informatici per la business intelligence, si aggiungono poi progetti in materia di sicurezza, anche militare, si allarga il campo di azione alla produzione e alla gestione del magazzino. Il cliente tipo è la media e grande impresa nazionale.

Il momento di vera accelerazione arriva nel 2008, dopo aver partecipato, come unica azienda italiana alla competizione mondiale Microsoft Award’s. Negli anni successivi di medaglie e riconoscimenti se ne aggiungono: per Confindustria Sms Engineering è una delle 25 aziende italiane più innovative, poi viene premiata anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, infine nel 2012 è finalista ai Premi Award’s. Un medagliere che fa crescere il portafoglio clienti, tra cui Ariston, Acqua Lete, La Doria, Pirelli, Marangoni, la Nato. Arrivano anche clienti stranieri, tanto che l’azienda di Casalnuovo avverte la necessità di aprire una sede commerciale a Londra. Oggi Sms Engineering ha un fatturato di 2 milioni che riesce a realizzare con trenta dipendenti, il 95% dei quali è rappresentato da giovani laureati.
La ricerca di professionisti resta un tema delicato nei laboratori di Casalnuovo. «Troviamo laureati ben preparati – spiega ancora Ascione – a cui dedichiamo anche un percorso di formazione in azienda». E aggiunge: «La qualità dei programmatori è strategica, ma assumere oggi costa troppo».

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