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Giappone in crisi, cala la produzione

Il Giappone è uno dei grando malati storici dell’economia globale, da oltre quindici anni con una crescita piatta, vicina allo zero, nonostante i tassi di interesse siano stati azzerati fin dall’inizio. È anche diventato l’esempio classico di “trappola della liquidità”:grande disponibilità di denaro liquido a costi bassi, attese negative per il futuro, “propensione per la liquidità” anziché per gli investimenti da parte degli imprenditori, stagnazione, maggiore liquidità immessa nela sistema, nessuna reazione economica degna di nota. È il punto zero della politica monetaria, che non esercita più alcun influsso sull’economia reale.

Il governo – che lì controlla completamente la banca centrale, al contrario di quanto avviene in Europa con la Bce – si prepara a varare una nuova massiccia operazione di politica monetaria “espansiva”, tesa a far svalutare lo yen nei confronti di dollaro, euro, yuan cinese, in modo da aumentare la “competitività” della produzione made in Japan. Un passo importante nella “guerra delle monete” che va prendendo piede nel mondo come reazione alla crisi delle economie avanzate (Usa, Europa e appunto Giappone).

Ma anche in attesa di queste misure, i dati economici diffusi oggi non sono per nulla entusiasmanti.

La produzione industriale ha segnato una flessione mensile dello 0,1% a febbraio, contro attese medie degli analisti di una crescita del 2,5%. È il primo stop da novembre, ma non ha portato alla modifica delle valutazioni sui segnali di ripresa graduale. Nel consueto sondaggio che accompagna la statistica, i grandi gruppi manifatturieri nipponici ipotizzano un aumento della produzione dell’1% a marzo e dello 0,6% ad aprile. Ma sembra decisamente terminato l’effetto-ricostruzione del dopo tsunami.

Il tasso di disoccupazione è intanto salito dello 0,1%. Il rapporto tra offerta e domanda di occupazione, secondo la rilevazione del ministero del Welfare, è rimasto stabile a quota 0,85; in altri termini, ci sono 85 posti di lavoro disponibili per ogni 100 richieste.

In questo quadro, anche i prezzi al consumo hanno segnato a febbraio una nuova contrazione in Giappone (-0,3% annuo), a conferma delle difficoltà per superare 15 anni di deflazione (i prezzi bassi sono una buona notizia soltanto per i consumatori, ma bloccano gli investimenti e quindi l’occupazione, ovvero – alla fine – si ritorcono contro i consumi). Il dato diffuso è in contrasto in linea coi piani del neo governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, che in 2 anni punta al target di inflazione del 2%. A marzo, i prezzi hanno avuto nell’area di Tokyo un calo addirittura dello 0,5%.

Lo stesso Kuroda ha dichiarato che il debito pubblico del Paese è “abnorme e non sostenibile”. Agli osservatori è sembrato un avvertimento al primo ministro, Shinzo Abe, circa la necessità di prendere misure economiche che non aumentino sconsideratamente l’esposizione finanziaria del paese. Il debito pubblico nipponico ammonta infatti al 236% del Pil, una percentuale che – in Europa – farebbe inorridire persino gli italiani (al 126).

Anche se questo debito, al contrario che in Europa, è quasi tutto in mani giapponesi, non è infatti escluso che nel prossimo futuro i mercati possano “perdere fiducia” e richiedere quindi una maggiore remunerazione del rischio, ovvero tassi di interesse più alti. A querl punto il controllo del debito pubblico del Sol Levante diventerebbe impossibile. Con conseguenze drammatiche per l’economia globale, visto che il Giappone è ancora la terza economia del pianeta.

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