«È indubbio che una crescita duratura sia condizione essenziale per ridurre la disoccupazione, in particolare quella giovanile. In alcuni Paesi europei questa ha raggiunto livelli che incrinano la fiducia in dignitose prospettive di vita e che rischiano di innescare forme di protesta estreme e distruttive».
Chissà se gli stessi che hanno assaltato il semisconosciuto prof. Becchi adesso accuseranno anche mario Draghi di vole fare della “sociologia giustificazionista” della violenza contro i Palazzi..
Naturalmente no, perché l’uomo che governa lo spread ha troppe armi nelle mani per poterlo impunenmente attaccare.
Eppure il ragionamento è “tecnicamente” esatto, secondo uno schema antico quanto il mondo: se il popolo ha fame e vede che invece i riccho se la spassano, quel popoli si incazza. E fa qualcosa. Magari di non ben studiato, magari fuori da un progetto di società diversamente congegnata, magari soltanto per sfogarsi un giorno e poi tornare pecoa… Ma si incazza e mena.
Ergo, consiglia il presidente della Bce – che sa benissimo di essere giustamente identificato come il primo difensore dei ricchi, quindi della finanza internazionale, e come uno dei principali artefici delle politiche economiche concepite nel dogma folle dell'”austerità espansiva” – è bene che si lavori per “la crescita”, in modo da evitare che i giovani (quelli che fanno le rivoluzioni, magari con i genitori e i nonni nelle retrovie) comincino a menar fendenti e distribuire pietre.
Ma come si fa a sostenere “la crescita” se le imprese non investono, non assumono, e le banche non prestano?
Qui Draghi in versione “espansiva” si ritrova stoppato da se stesso in versione Bundesbank: senza «la sostenibilità dei conti pubblici non é possibile una crescita duratura, soprattutto per i paesi più indebitati». Il ragionamento qui diventa un loop, senza via d’uscita.
Cosa consiglia di fare, infatti? Per «mitigare» gli effetti recessivi del risanamento dei conti i governi dovrebbero privilegiare «le riduzioni di spesa pubblica corrente e quella delle tasse», specie le seconde fuori da ogni «confronto internazionale». Ma tagliare la spesa corrente – stipendi, forniture, servizi, sussidi – significa in condizioni di recessione prolungata far diminuire immediatamente anche la domanda, quindi inibire le imprese dal proseguire o sviluppare la loro attività. Insomma: si aumenta la depressione, invece di diminuirla. Mentre all’opposto lavorerebbe una diminuzione delle tasse, peraltro resa impossibile proprio dalle necessità di spesa dello Stato. Altro loop, nessuna soluzione.
Eppure sa benissimo che una delle cause del pessimo stato dell’economia italiana – oltre al comportamto “anticapitalistico” di buonaparte delle imrpese, specie medio-piccole – risiede nella straordinaria disegualianza tra i redditi in questo paese. E’ lui stesso infatti a citare «una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie che penalizza i più deboli». Mentre, al contrario, una più equa distribuzione del reddito potrebbe aumentare la coesione sociale. Certo, servirebbero “riforme strutturali” capaci di eliminare “le posizioni di rendita”. Ma quali sono le “posizioni di rendita” da combattere? Quelle degli immobiliaristi e delle banche, per dirne solo due, o i diritti dei lavoratori dipendenti?
Per Draghi, «Una più equa partecipazione ai frutti della produzione della ricchezza nazionale contribuisce a diffondere la cultura del risparmio e, dunque, della compartecipazione. Sentirsi parte integrante della nazione e cointeressati alle sue sorti economiche aumenta la coesione sociale e incentiva comportamenti economici individuali che conducono, nell’aggregato, al successo economico della collettività». Verissimo. Se consigliasse un’altra politica economica sarebbe anche coerente.
Gli strumenti che lui ha, e che promette di usare, sono ben pochi. Un ulteriore taglio dei tassi di interesse (già ora allo 0,5%, ormai al limite delle possibilità di “ritocco”) e acquisti di titoli di stato dei paesi in difficoltà (in modo però mascherato e condizionando i singoli paesi a misure di taglio ancora più consistenti). I governi nazionali, a voler essere precisi, ne hanno ancora meno.
Quindi non ci resta che riprendere in mano il gusto della “protesta”, visto che mostrano attenzione e preoccupazione solo quando questa si leva. In modo logico, avvertito, determinato, consapevole. Ma protesta forte, estesa, radicale. Altrimenti continueranno a fare disastri.
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