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“Ciclo di Frenkel” o di Frankenstein?

Il problema dell’euro esce di nuovo fuori con prepotenza. Ed esce sui media mainstream, non sui siterelli complottistici o – più seriamente – nelle pubblicazioni (online o cartacee) che da molto tempo criticano radicalmente l’impianto stesso della moneta unica. Noi tra questi, notoriamente.

La natura del problema è nello squilibrio di partenza tra “aree monetarie nazionali” che rappresentavano un determinato equilibrio equilibrio proprio di ogni paese, pur in una diversità notevole sul piano continentale. La decisione di passare ad un’”area monetaria” unica – per giunta in completa assenza di un potere politico equivalente e legittimato dal voto popolare, e con una Banca centrale con caratteristiche uniche al mondo come l’indipendenza da un potere politico peraltro inesistente – non poteva che stravolgere i diversi equilibri “locali”.

L’idea di partenza – rivelatasi completamente falsa – era che il nuovo equilibrio avrebbe permesso una crescita accelerata, a partire proprio da quei paesi che presentavano livelli di sviluppo inferiori. L’idea era falsa giù sul piano storico, perché mai era avvenuto che un’unificazione sotto la stessa divisa (in ambiente capitalistico, naturalmente; in ambiente “socialista” può avvenire tranquillamente l’opposto) si rivelasse positiva per le aree più arretrate. Basterebbe guardare l’evoluzione della nostra più che centenaria “questione meridionale” per essere illuminati in proposito.

Quest’idea è peraltro alla base dell’altrettanto fasulla teoria economica chiamata “austerità espansiva” (elaborata da Rogoff e Reinhart, divulgata e resa senso comune da Giavazzi, Alesina e compagnia sui principali media), dimostrata falsa da studi accademici recentissimi ma non per questo abbandonata dai centri decisionali a-democratici che governano i 28 paesi dell’Unione europea (Bce, Fmi e la stessa Ue; la Troika, insomma).

Ora però siamo arrivati a un punto di svolta. È chiaro agli operatori economici “reali” (imprese “nazionali”, principalmente) che questa strada è fallimentare, sta distruggendo la stessa possibilità di “fare impresa” nei paesi più deboli.

E quindi viene pubblicamente posta la domanda: ma la crisi dell’eurozona dipende dall’eccessivo debito pubblico o, al contrario, dalle dimensioni abnormi di quello privato?

La gestione della crisi fin qui ha favorito i capitali finanziari privati, responsabili unici della creazione di un insostenibile “effetto leva” (prestiti di gran lunga superiori alle proprie disponibilità), poi esploso nel 2007-2008 e fin qui tamponato solo dal dissanguamento dei bilanci pubblici nazionali e dalle successive “iniezioni di liquidità” delle principali banche centrali del pianeta.

Si “scopre” perciò all’improvviso l’utilità anche empirica del “ciclo di Frenkel” (risultato degli studi dell’economista argentino Roberto Frenkel sugli effetti catastrofici della “dollarizzazione” del suo paese sotto Menem) e la sua straordinaria coincidenza con la crisi dei paesi Piigs europei all’interno dell’euro.

IlSole24Ore di oggi propone un’eccellente illustrazione del problema-euro da questo punto di vista, e vi proponiamo qui di seguito l’articolo e le schede curate da Vito Lops.

Da parte nostra, però, vogliamo fare un passo avanti. In questi mesi sta arrivando a conclusione un negoziato tra Ue ed Usa per la creazione di un “mercato unico transatlantico”, con caratteristiche molto simili a quelle del mercato unico europeo prima della creazione dell’euro. Lasciamo da parte per il momento le rivelazioni “spionistiche” che vedono gli Stati Uniti nel ruolo di “vampiro delle informazioni rilevanti”, non solo a fini militari ma anche commerciali (lo spionaggio industriale e sull’evoluzione delle strategie commerciali o monetarie rientrano in questo range), che comunque dimostrano che la “competizione” non diminuisce neanche tra alleati “squlibrati”.

Invitiamo invece a riflettere sul fatto che si stanno ponendo le basi per ripetere un gioco folle e catastrofico su scala planetaria. È scontato, più che ovvio, che il “mercato unico transatlantico” metta insieme due “aree monetarie” profondamente differenti e con squilibri di potenza enormi. Citiamo per elencazione, senza entrare troppo nei dettagli:

  • gli Stati Uniti hanno una moneta che è contemporaneamente: unità di misura del valore delle merci sia all’interno che su scala globale, mezzo di pagamento globale, principale moneta di riserva degli altri paesi. Al contrario dell’euro, che ha funzione di unità di misura quasi esclusivamente sul mercato “interno”, una dimensione minore come mezzo di pagamento internazionale e una presenza solo discreta nelle riserve monetarie delle principali nazioni del mondo.
  • Gli Stati Uniti dal 1971 “stampano dollari” in quantità inconcepibili, obbedendo a criteri puramente “nazionalistici” (la Federal Reserve deve tener d’occhio il tassi di inflazione e quello di disoccupazione interni); mentre la Bce – che ha per statuto il solo compito di tener bassa l’inflazione – mantiene un controllo molto rigido sull’espansione della massa monetaria. Attraverso la “stampa libera” di dollari hanno scaricato per 40 anni i propri problemi economici sul resto del mondo (sono l’unico paese al mondo che possa dare “carta” di dubbio valore in cambio di merci fisiche e “immateriali”)
  • Gli Stati Uniti sono la potenza militare dominante e usano questa potenza non solo per conquistare parti del mondo “strategiche” (i paesi con le maggiori riserve di idrocarburi o da cui poter esercitare pressione militare sui potenziali nemici), ma soprattutto per tenere alto il livello di “credibilità” della propria moneta. Come recita il vecchio detto inglese, “la moneta serve a costruire le navi e le navi servono a sostenere la fiducia nella moneta”. Tradotto in volgare: tutti accettano e usano i dollari di carta perché dietro la carta ci sono corazzate, droni e missili intercontinentali.

Il mismatch è evidente già così. È facile prevedere – se l’evoluzione della crisi globale non creerà molto prima inciampi decisivi – che l’effetto di medio-lungo periodo non potrà che essere la dollarizzazione dell’Europa. Con tutte le conseguenze che il “ciclo di Frenkel” e la parabola argentina illustrano con agghiacciante chiarezza.

Quando, anche da parte nostra, si pone la necessità e urgenza di un’uscita dall’euro dell’Italia e degli altri Piigs, si pone la condizione minima – ancorché difficilissima da realizzare – per far sì che questi paesi sopravvivano come centri produttivi e luoghi di civilizzazione. Preferibilmente insieme, con una moneta diversa dall’euro. E a maggior ragione dal dollaro.

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La crisi dell’Eurozona è un problema di debito pubblico o privato? Per chi segue il ciclo di Frenkel non ci sono più dubbi

di Vito Lops
Nel 2013 il Pil dell’Italia (e non solo) è visto ancora in decrescita. Allo stesso tempo a giugno il tasso di disoccupazione è balzato al 12,2%, il livello più elevato dal 1977. Fa da contraltare il buon dato recente sulla produzione manifatturiera, sintetizzata dall’indice Pmi che è cresciuto a quota 49,1. Il dato, pur in aumento, resta sotto quota 50, che è considerata la soglia minima di espansione di un Paese. Insomma, non si può dire, dopo oltre cinque anni, di essersi messi alle spalle la crisi. Se poi si guarda al tasso di disoccupazione di Spagna (+28%) e Grecia (+27%) con quelli giovanili che superano il 50% il quadro né nel breve né nel medio-lungo sembra incoraggiante.

In questo contesto poco confortante c’è chi comincia a mettere in dubbio le politiche sinora adottate dalle autorità per uscire dalla crisi, volte all’applicazione di misure di austertià, chiedendosi: la crisi dell’Eurozona è un problema di debito pubblico o di debito privato? Stando alle misure fiscali che vengono chieste ai Paesi, e non importa se questi siano o meno in recessione, pare che i vertici europei credano più alla prima che alla seconda ipotesi.

Ma le contraddizioni restano, e sono profonde dato che i numeri dimostrano che i 17 Paesi che utilizzano l’euro negli ultimi sei anni di crisi sembrano entrati in una sorta di loop. Tra gli stessi vertici c’è chi come Vítor Constâncio, vice-presidente della Banca centrale europea, ha recentemente dichiarato nel corso di un convegno ad Atene: «Penso che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della crisi, dobbiam

IlSole24Oreo guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei Paesi debitori e creditori. al contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato è aumentato nei primi sette anni dell’euro del 27%. L’aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a grandissimo stress durante la recente crisi. La crescita repentina del debito pubblico, d’altra parte, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di quattro anni, i livelli del debito pubblico sono aumentati di cinque volte in Irlanda e di tre in Spagna».

Si tratta di una dichiarazione molto forte. In cui il vice-presidente della Bce ribalta le cause della crisi che hanno finora guidato gran parte delle scelte istituzionali volte a risolverla. Il debito pubblico dei Paesi della periferia – preso sotto attacco fino allo scorso luglio dai mercati finanziari e in ogni caso che oggi paga rendimenti decisamenti più alti rispetto a quelli dell’Europa del Nord – non sarebbe stato la causa della crisi dell’Eurozona. «Infatti, in certi Paesi il debito pubblico è decresciuto, e in qualcuno è diminuito sostanzialmente. Per esempio, tra il 1999 e il 2007, il debito pubblico spagnolo è passato dal 62,4% del Pil al 36,3% del Pil. In Irlanda, nello stesso periodo, è diminuito dal 47% al 25% del Pil. Per quanto a livelli relativamente alti, il debito pubblico è diminuito anche in Italia (dal 113% al 103,3% del Pil) ed è aumentato solo di poco in Grecia. Comunque, negli ultimi due casi, il livello era già in effetti molto superiore al 60% fissato dal Patto di stabilità e crescita.

Viceversa l’aumento del debito pubblico sarebbe una conseguenza dell’esplosione di una bolla del debito privato, gonfiata dai crediti che le banche del Nord Europa hanno fatto alle banche del Sud e, di conseguenza, a famiglie e imprese della “periferia”, forti di un grande surplus favorito anche dagli squilibri commerciali tra i Paesi dell’area euro, a sua volta accentuati da differenti dinamiche di inflazione.

Continua Constâncio: «Da dove venivano i finanziamenti che hanno fatto esplodere il debito privato? Un aspetto particolare del processo di integrazione finanziaria europea dopo l’introduzione dell’euro è stato un deciso incremento nelle attività bancarie tra paesi. L’esposizione delle banche dei Paesi del centro verso i paesi della periferia è più che quintuplicata tra l’introduzione dell’euro e l’inizio della crisi finanziaria».

A conti fatti, quindi, Constâncio sembra dar indirettamente ragione all’economista argentino Roberto Frenkel che, analizzando quanto accaduto in Argentina fino al 2001, quando in preda a una forte crisi fu costretta a sganciarsi dall’unione valutaria con il dollaro. Questo economista spiega in sette passi quello che accade ai Paesi più deboli quando àncorano la loro valuta a una valuta più forte, in concomitanza di uno scenario di liberalizzazione del mercato dei capitali e di mancanza di compensazione degli squilibri. Pertanto, la grande domanda del momento, che divide europeisti ed euroscettici è: nell’area euro sta accadendo la stessa cosa?

Vediamo quali sono le sette fasi del ciclo di Frenkel.

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Il ciclo di Frenkel può spiegare la crisi dell’Eurozona?

Prima fase: liberalizzazione di capitali
All’interno di un’area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali. In questo modo non ci sono più vincoli protezionistici al trasferimento finanziario tra i singoli Paesi. Quale è il quadro in Europa? Una direttiva europea del 1988 ha enunciato il principio della libera circolazione dei capitali fatte alcune eccezioni (fatte salve alcune prerogative degli Stati membri in materia tributaria, fiscale). Dal 1999 con l’introduzione dell’euro queste restrizioni (clausole di salvaguardia) sono state abolite.

Seconda fase: inizia l’afflusso di capitali esteri verso i Paesi periferici

Una volta che i capitali sono liberalizzati inizia un afflusso di capitali dai Paesi del “centro” verso quelli della “periferia”. I Paesi del “centro” (quelli più forti che hanno svalutato il cambio entrando nell’unione valutaria) trovano vantaggioso questo processo perché i tassi nella “periferia” (quelli dalle economie più fragili che hanno “rivalutato” il cambio entrando nell’area valutaria comune) sono un po’ più alti e, in ogni caso, si tratta di prestiti privi di rischio cambio (perché il cambio dell’area valutaria è rigido).

Terza fase: aumenta il Pil e diminuisce il debito nei Paesi della “periferia”

L’afflusso di prestiti alimenta la domanda di famiglie e imprese della “periferia” generando una crescita dei consumi e degli investimenti e, di conseguenza, del Prodotto interno lordo. Allo stesso tempo migliorano i conti pubblici in quanto aumenta anche il gettito fiscale collegato all’espansione economica.

Quarta fase: cresce l’inflazione nella “periferia”

L’aumento di consumi e investimenti favorisce sì una crescita del Pil ma anche dell’inflazione. L’economia della periferia è in espansione e quindi sale anche il livello dei prezzi. Ma l’espansione resta legata all’afflusso di capitali stranieri, facilmente riscontrabile dall’aumento del debito privato che cresce molto più velocemente rispetto al debito pubblico che, come visto nella terza fase, tende a decrescere.

Quinta fase: uno shock (interno o esterno) fa scoppiare la bolla del debito privato

A questo punto accade un evento traumatico che spinge i creditori del “centro” a chiudere i rubinetti verso la “periferia”. Gli euroscettici che sposano la teoria del ciclo di Frenkel attribuiscono, per quanto riguarda l’area euro, questo evento alla crisi dei derivati subprime culminato con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008.

Sesta fase: si innesta un circolo vizioso recessivo che fa peggiorare il debito pubblico
A questo punto, venendo a mancare la liquidità straniera, si innesta un circolo vizioso per cui i Paesi della “periferia” entrano in recessione. Il debito pubblico aumenta è allo stesso tempo calano consumi e investimenti che fanno calare il Pil. Di conseguenza il rapporto debito/Pil peggiora e continua a peggiorare perché i Paesi della “periferia” sono costretti ad attuare misure di restrizione fiscale (tagli alla spesa pubblica o aumento delle tasse) che peggiorano ulteriormente il circolo vizioso

Settima fase: la situazione diventa insostenibile e la “periferia” si sgancia dall’area valutaria

L’austerity e il circolo vizioso sui conti pubblici rendono la situazione insostenibile per la “periferia” che non ha alternative allo sganciarsi dall’unione valutaria. Secondo Frenkel è quello che è successo in Argentina. Lo stesso copione si sarebbe già visto anche in altri Paesi dell’America Latina e dell’Asia. Secondo alcuni economisti di stampo keynesiano l’Italia non sarebbe nuova a questo schema avendolo già sperimentato in parte quando nel 1992, un mese dopo l’Inghilterra, abbandonò lo Sme (Sistema monetario europeo).

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