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Il debito d’Islanda, il debito da non pagare

A leggere gli editoriali, o a sentire i nostri sgovernanti, i vincoli europei sono indiscutibili. Altrimenti si muore di spread.

Verissimo, se l’orizzonte entro cui ci si muove è quello consueto (siamo nell’Unione Europea, abbiamo firmato trattati senza capirli e senza farli convalidare da un voto popolare informato, abbiamo una moneta unica gestita da un organismo “tecnico” che applice una politica monetaria apparentemente mutuata dai manuali, anziché dalle necessità economiche, ecc).

Falsissimo, se si guardano le vicende anche economiche da un punto di vista esterno. Il debito mostruoso che attanaglia l’Italia per i prossimi venti anni, con il Fiscal Compact che ne decreta in anticipo la fine come paese “importante” (e ce ne potremmo quasi fregare) e soprattutto come paese entro cui si possa anche vivere decentemente (il raddoppio dei poveri “assoluti” in cinque anni, arrivati al 10% della popolazione, è solo un anticipo di futuro prossimo), appare molto più gestibile se l’Unione Europea dovesse “rompersi”. O esser rotta.

Il tema è ormai apertamente discusso in tutto il Vecchio Continente, soltanto qui – da servi dei servi dei servi – viene considerato un tabù indiscutibile. Eppure nelle elezioni tedesche di ieri si presentava un partito apertamente euroscettico – da destra, ovvero da un punto di vista “nazionalistico” – che ha sfiorato la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento; e uno di sinistra progressita, Die Linke, è attraversato in modo fecondo dall’ennesima provocazione del vecchio leone Lafontaine (“usciamo dall’euro”). Segno che anche nel paese che più ha guadagnato dall’adozione della moneta unica, con i livelli scombiccherati di concambio adottati all’origine, cresce la quota di quanti vedono nell’euro una macchina dannosa, più che una “radiosa prospettiva d progresso).

Se poi la questione viene riguardata da un piccolo paese con un grande debito, che nell’euro non ha più tanta voglia di entrare – l’Islanda – esce addirittura fuori che una strada diversa per “risanare” i bilanci esiste: certi debiti si possono anche non pagare. Perché ad un certo punto si tratta di scegliere tra due danni: quello di restare dentro un meccanismo che ti stritola, togliendoti il futuro, e quello di uscirne pagando un prezzo anche alto. Ma probabilmente inferiore – ad un certo punto – a quello che si paga “restando dentro”.

E alla fine anche IlSole24Ore, organo di Confindustria, p costretto a farsi la domanda.

 

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Islanda ha un’idea per uscire dalla crisi: non pagare i debiti. Il premier avverte le banche: o sconto o… niente

 

di Vittorio da Rold

L’Islanda, quella della crisi delle banche e quella del vulcano Eyjafjallajokull la cui eruzione bloccò i cieli di mezza Europa qualche tempo fa, ha deciso di essere protagonista di una nuova eruzione. Politica, questa volta: sospendere a tempo indeterminato i negoziati per l’ingresso nella Ue e rinegoziare i debiti con le banche, con la minaccia, neanche troppo velata, di non pagare. Un modo originale per uscire dalla crisi.

 

Lo ha reso noto il premier Sigmundur David Gunnlaugsson, 38 anni, di centrodestra, nel corso di una intervista al canale televisivo americano Cnbc dove ha spiegato i motivi della scelta: «L’eurozona non imparato niente dalla bancarotta della banche islandesi del 2008. Le banche della zona euro stanno ancora funzionando con le stesse regole che hanno portato le banche islandesi al collasso. Per questo non siamo più interessati ad entrare nell’Unione e neanche nell’euro». L’annuncio del premier è stato poi ratificato dalla maggioranza di governo in Parlamento sopprimendo la speciale commissione per i negoziati con la Ue.

 

La vicenda si intreccia con il contenzioso sul pagamento dei crediti con le banche ancora in sospeso. In Islanda il giovane premier Gunnlaugsson, ha deciso di ingaggiare un braccio di ferro con i creditori delle banche fallite del paese nordico. Il giovane premier islandese li ha accusati di essere il principale ostacolo all’eliminazione dei controlli di capitale, messi in tutta fretta cinque anni fa dal governo, per impedire la fuga dei capitali dall’isola. A causa dei contrasti con i creditori internazionali il premier è stato costretto a fare un passo indietro dalle promesse fatte in campagna elettorale e ha precisato che fornirà un piano di rientro nella normalità finanziaria entro fine mese.

 

Ma che sta succedendo in quest’isola lontana nel mare del Nord? Sullo sfondo della clamorosa decisione di rottura con Bruxelles ci sono vecchie ruggini con la Ue sulla questione del debito della banca Icesave, una vicenda anche questa vulcanica per la quale l’Ue si era schierata ai tempi con Londra e L’Aja (i creditori) nel chiedere che il debito della Landsbanki, una banca privata poi statalizzata, venisse onorato. Ma il governo islandese ha sempre fatto orecchie da mercante invocando il fatto che c’era stato un moral hazard da parte dei creditori che avevano prestato ingenti somme a un soggetto privato senza le necessarie garanzie. Lo stato islandese era poi intervenuto per evitare che la banca si trasformasse in una Lehman Brother islandese. Questo salvataggio non significava che automaticamente si dovessero ripagare tutti i debiti pregressi. Una posizione che la Ue invece non accetta.

 

I negoziati con la Ue non sono mai stati stati facili poiché Bruxelles ha sempre chiesto a Reykjavík di aderire all’acquis communitaire su alcuni punti, fra cui la libera circolazione di capitali e il coordinamento delle politiche di pesca che l’Islanda non ha mai gradito.

 

Su libertà di movimento di capitali (e conseguente restituzione dei debiti) e anche sulla questione delle regole sulla pesca, le trattative si sono rotte. Il primo ministro islandese di centro destra, ancora poco conosciuto all’estero è giunto al potere in aprile con la promessa di cancellare i debiti sui mutui ipotecari e di eliminare i controlli di capitale messi in piedi dopo il drammatico crollo economico del 2008. Nel mese di maggio, ha detto che l’accordo con i creditori era in vista ma le cose non sono andate lisce come sperava.

 

Il braccio di ferro è con quei creditori offshore che hanno 8 miliardi di dollari intrappolati nell’isola a causa dei controlli sui capitali poiché l’Islanda ha bloccato quasi cinque anni fa i suoi mercati per evitare la fuga di capitali. Gunnlaugsson ha già detto che in cambio del ritorno alla normalità, vuole che i creditori riducano le loro pretese. Si vocifera di uno sconto di circa 3,8 miliardi di dollari sul totale dei crediti vantati pari a 8 miliardi di dollari ma naturalmente non ci sono certezze.

 

Il sistema finanziario dell’isola crollò nel 2008 dopo che le sue banche cedettero sotto il peso dei loro debiti per un ammanco di 85 miliardi dollari. Una bancarotta che portò all’epoca al blocco dei bancomat da un giorno all’altro e al crollo della moneta locale dell’80% nei confronti dell’euro e sprofondò l’isola nordica nella peggiore crisi negli ultimi sessanta anni. Da quel momento gli abitanti sono tornati alle vecchie occupazioni di un tempo e hanno messo nel cassetto il sogno di diventare un paradiso finanziario. Ora pensano solo a come evitare di pagare i debiti di un passato recente, quando da pescatori di merluzzo vollero diventare banchieri d’alto bordo usando la leva finanziaria oltre i limiti consentiti.

 

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