Oggi il governo affronta – senza credere troppo finte polemiche Alfano-Letta sulla fine o meno del ventennio berlusconiano – uno dei nodi ricorrenti di una politica industriale scomparsa: il destino di Alitalia, ormai sull’orlo di un nuovo fallimento, con relative perdite massicce di occupazione.
Ma i media mantengono una discrezione che stride in modo pesante con il can can che invece accompagnò la crisi di cinque anni fa, quando alla fine fu creata da Berlusconi e Tremonti una “cordata di capitani coraggiosi” capaci di prendere – a gratis – il controllo della compagnia di bandiera. Una privatizzazione “all’italiana”, con i privati (a partire da Colaninno per finire con Marcegaglia, passando per “campioni” dell’imprenditoria come i Riva dell’Ilva o il Toto di AirOne) a investire il minimo indispensabile e lo Stato a garantire, con quattro miliardi, il passaggio di consegne e gli ammortizzatori sociali per crica 10.000 dipendenti. Molti dei quali stanno ora per diventare “esodati” grazie – si fa davvero per dire – alla riforma delle pensioni voluta da Fornero e Monti.
Tutto per privatizzare la compagnia “salvaguardo l’italianità” ed evitare che venisse comprata da Air France (che invece continua ad essere una società la cui golden share è in mano all’Eliseo). Tutto per finta, naturalmente, visto che la compagnia francese saliva dal 2 al 25% dell’azionariato, diventando così il “socio di maggioranza relativa”, oltre che l’unico membro dell’azionariato a conoscere già e bene il mercato del trasporto aereo.
Cinque anni dopo siamo al punto di partenza, con una compagnia ancora più piccola, che ha ridotto a ben poco le tratte più redditizie (quelle intercontinentali) per non fare concorrenza al socio francese e ha puntato – in modo suicida – sul “traffico regionale”, euromediterraneo, su cui ha sofferto la concorrenza delle società low cost, fino a cercare di trasformarsi essa stessa in un vettore che subappalta le proprie tratte a compagnie “di fortuna” (come si è visto con l’incidente di un aereo della rumena CarpatAir, fuori pista a Fiumicino, “vestito” in modo da sembrare un aereo Alitalia).
Si parla di una “ristrutturazione” che potrebbe provocare altre migliaia di licenziamenti, di un possibile acquisto da parte di Air France e naturalmente anche del modo di “salvaguardare l’italianità” di un’impresa senza né capo né coda.
In attesa che il governo provi a sbrogliare la matassa, si scatenano le voci e gli appetiti più diversi. Per Salvatore Mancuso, vicepresidente della compagnia italiana, con Air France non c’è futuro per l’Alitalia. Il partner ideale sarebbero secondo lui gli arabi di Etihad (fondata dallo dallo sceicco degli Emirati, Khalifa bin Zayed Al Nahayan), che dovrebbe “assumerebbe una partecipazione di minoranza, consentendo alla compagnia di mantenere un controllo stabile in mani italiane”. Qu già si avverte forte l’odore di bruciato: se il 25% è già dei francesi, che non appaiono interessati a vendere la loro quota, visto che si son dichiarati disposti a partecipare a un eventuale aumento di capitale, una “quota di minoranza” emiratina farebbe salire l’azionariato in mani “straniere” ben oltre quella soglia (almeno il 40%). L’”italianità” sarebbe a quel punto rappresentata da una lunga serie di azionisti “non del mestiere” e che stanno attendendo con impazienza – da cinque anni – di liberarsi di questo fardello che si erano assunti solo per assicurarsi scambi “politico-economici” con il Cavaliere. E torna in campo persino IntesaSanPaolo, che aveva allora in posizione di vertice allora i futuri ministri “montiani”, Corrado Passera ed Elsa Fornero; la banca al centro di tutte le operazioni peggiori degli ultimi 15 anni.
Dopo il cda di venerdì scorso sono proseguiti i contatti tra banche e soci in vista del nuovo vertice convocato domani pomeriggio a Palazzo Chigi. Il management sta lavorando alacremente sul piano industriale e il fabbisogno finanziario per fornire dettagli precisi nella riunione di oggi con il premier Enrico Letta, i ministri Maurizio Lupi e Flavio Zanonato, e il sottosegretario Claudio De Vincenti. L’obiettivo – come sempre – è capire chi sarà disponibile a mettere di nuovo mano al portafoglio.
Se si parla di metter mano al portafoglio, però, tutti guardano al governo (abbiamo dei “capitani” davvero audaci, altro che “coraggiosi”). Ieri il ministro delle infrastrutture, Maurizio Lupi, ha confermato che saranno valutate «tutte le opzioni che sono sul tavolo». «Tutto il nostro impegno è per salvare la strategicità di Alitalia, l’occupazione e il piano industriale. Siamo un grande paese industriale, Expo 2015 è una opportunità e la nostra compagnia di bandiera non possiamo farla diventare una compagnia regionale». In ogni caso, al di là delle chiacchiere, ci sarà bisogno di «un’alleanza con grandi vettori internazionali. Air France è certamente un interlocutore prioritario, vedremo poi se ce ne saranno altri».
Ma intanto vanno trovati soldi freschi per casse vuote. Le banche vengono in queste ore sondate per capire se sono disposte a sostenere un nuovo prestito da 300 milioni di euro, e magari anche la parte dell’aumento di capitale (100 milioni di euro, deciso dal board il 26 settembre) che non dovesse trovare sottoscrittori. Le banche naturalmente nicchiano: una esposizione così forte potrebbe essere sostenuta solo con un piano industriale davvero attendibile e un “partner globale” credibile. Un giro dell’oca in cui si torna sempre al punto di partenza.
L’idea del governo, per tamponare il momento critico, sembra quella di coinvolgere.. le Ferrovie dello Stato, teoricamente il principale concorrente (almeno sulla tratta prinicipale di Alitalia, la Roma-Milano), ma dotato di “liquidità” e dispobile a ragionare di una maxi-integrazione tra treno e aereo. Su di un paese stabilmente ridotto a terminale turistico di massa, deindustrializzato e senza autonomia né eccellenze produttive,
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