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La lotta di classe dentro la “legge di stabilità”

L’economia quotidiana è il terreno naturale della lotta di classe. Lo sanno anche gli asini, gli ideologi che credono di essere “comunisti” nominandola spesso e praticandola mai, e persino gli imprenditori. Certo, prima di avventurarsi nelle vicende della lotta di classe reale bisognerebbe sempre ricordare che – marxianamente – le classi non sono due, ma tre. Non solo proletariato e borghesia, ma anche i rentier, quanti vivono della rendita terriera o immobiliare (cosa molto diversa dalle “rendite finanziarie”, che vanno sotto la categoria di “capitale produttivo di interesse” e identifica perciò una particolare frazione della “borghesia”).

 

Chi identifica le classi in base alla loro ricchezza e al livello esibito di vita (barche, ville, club esclusivi, vacanze esotiche, ecc), senza guardare da dove provenga quel flusso di ricchezza, fa fatica a distinguere borghesi e rentier. Perché guarda “il denaro” accumulato, non il modo di ottenerlo. Al contrario, la borghesia – manifatturiera e finanziaria – sa distinguere perfettamente. E lotta in maniera durissima non soltanto contro i lavoratori, cercando di comprimerne il salario diretto o indiretto (welfare, servizi sociali, edilizia pubblica, sanità, istruzione, ecc); ma anche contro i rentier, che si appropriano di una quota variabile del profitto generato nella produzione. E quando questa quota diventa troppo elevata, arrivando al punto di compromettere l’equilibrio generale del sistema – all’interno di un singolo paese o di un’area monetaria – ecco che questa lotta si inasprisce, diventa esplicita, fino a rompere il quadro politico consolidato.

 

La premessa – lunga, lo ammettiamo – era necessaria per inquadrare cosa sta accadendo nel “sistema Italia”. Per capire insomma, fuori dagli schemini ideologici che ci propinano i talk show o i media mainstream, cosa c’è “sotto” l’eliminazione politica di Berlusconi e il “dimagrimento” del blocco sociale che il Cavaliere ha rappresentato per venti anni. E quindi anche per illuminare l’autentica battaglia che sta avvenendo intorno alla “legge di stabilità” presentata dal governo Letta all’Unione Europea e in questi giorni anche davanti al Parlamento.

 

Una battaglia che avviene sotto la direzione accorta della Troika (Ue, Bce e Fmi), che fissa i parametri e anche le scelte di politica da preferire.

 

L’articolo di Carlo De Benedetti apparso oggi su IlSole24Ore spiega al meglio i termini di questo scontro che deve definire i contorni del paese nel prossimo futuro. La sua critica a Letta è di essere troppo “tenero” con i berlusconiani, ovvero di aver approntato una manovra finanziaria che non aggredisce con nettezza i terreni di caccia del “blocco berlusconiano”. Che sono la rendita immobiliare, le escrescenze tumorali legati ad appalti, subappalti e consulenze dipendenti dalla spesa pubblica, ecc.

 

Il titolo forte – “serve una patrimoniale” – può ingannare chi non vede differenza tra profitto e rendita, chi pensa sia una contraddizione che un imprenditore di successo chieda per l’appunto una tassa sui patrimoni. Ma come, chiede che lo facciano pagare di più?

 

Qui la differenza tra profitto e rendita appare invece prepotente. È ovvio che un ricco imprenditore – industriale o finanziere che sia, o magari entrambe le cose insieme – possieda anche un patrimonio immobiliare. Ma non è su questo, principalmente, che sviluppa i propri profitti. De Benedetti infatti chiede una “patrimoniale” con cui finanziare un abbattimento drastico del “cuneo fiscale” (in primo luogo a favore delle imrpese, non certo della parte che potrebe andare ai lavoratori), in modo da ridare fiato alle imprese che generano profitto. A scapito di chi? Dei rentier che ingrassano sulle plusvalenze immobiliari, sui cambi di destinazione dei terreni (da “seminativo” a “edificabile”), sulla moltitudine delle rendite di posizione.

 

Il problema “politico” è che queste figure sociali da colpire sono rappresentate da un “partito” abbastanza trasversale anche nel governo, pur se massicciamente concentrato nel Pdl. E così da un lato ci sono gli Alfano che dicono “la legge di stabilità non è il vangelo” (quindi si può cercare di contenerne gli effetti sulla rendita) e dall’altra c’è Confindustria che lamenta, come De Benedetti, il “poco coraggio” (nel tagliare le unghie alla rendita).

 

Manca chi rappresenti il mondo del lavoro, come si vede. Né la “borghesia” appare più interessata a – o nella possibilità di – offrire un’alleanza al mondo del lavoro contro i rentier. Era questo, in fondo, il “modello sociale europeo” fondato sul welfare; il modello che la Troika ha deciso di distruggere. Un compromesso tra profitto e rendita, nel “governo Alfetta”, potrà dunque essere trovato, ma sulle spalle di lavoratori, precari, disoccupati, pensionati, dipendenti pubblici, ecc.

 

I sindacati “complici” sono del resto guidati da un gruppo di collusi ottusi, incapaci persino di difendere il peso politico delle istituzioni che guidano e neppure più consultati prima di presentare la “legge di stabilità”. Il “consociativismo” è finito, ma loro non ne hanno nemmeno tratto le conseguenze. Attendono la morte senza riuscire a ridefinirsi.

 

Il movimento antagonista che si è messo finalmente in moto in queste settimane non ha ancora la dimensione sufficiente a condizionare la partita mettendo sul piatto con la forza necessaria interessi sociali diversi e opposti. E neanche, purtroppo, una visione sufficientemente chiara dello scontro in atto. Ma ha iniziato a camminare e pensare, non potrà che crescere su entrambi i fronti (azione politico-sociale e visione “scientifica”).

 

Solo per questo motivo, del resto, ha senso impegnarsi nello scrivere articoli come questo.

 

Ci si vede in piazza. Si parte e si torna insieme.

 

 

*****

 

Una patrimoniale per tagliare il cuneo

 

Carlo De Benedetti

 

Sono intervenuto con piacere al convegno di Napoli dei Giovani industriali. Voglio prendere spunto dall’intervista del direttore del Sole, che ha aperto quei lavori, con il presidente della Repubblica. Il tema era il coraggio delle scelte di govemo.

 

Non so quanto sia giusto abbinare la categoria del coraggio alle decisioni di un esecutivo. Credo che, quando si ragiona di scelte politiche, ci si debba domandare «coraggio per chi»? Se la priorità di un politico è il proprio destino, o la durata purchessia del proprio governo, quel coraggio non mi interessa. Se si parla delle scelte coraggiose che servono per rimettere in piedi il Paese, concordo sul fatto che di coraggio ne serve molto. Coraggio disinteressato e in favore dei più.

 

Serve questo coraggio per ridare un futuro all’Italia. Come ho detto a Napoli, io non vedo una ripresa che ci sta venendo incontro. Tutti i dati convergono nel dire che l’economia italiana é di fronte al rischio di un ridimensionamento storico della capacità produttiva. Per evitarlo serve una vera rivoluzione. E servono, appunto, scelte coraggiose.

 

Non voglio però dilungarmi in analisi generali sullo stato preoccupante in cui versa la nostra economia, né in ricette complessive di rilancio, che ritengo debbano consistere in un radicale rinnovamento di uomini e strutture. Voglio qui riferirmi, più modestamente, a una precisa scelta, coraggiosa appunto, che vorrei portare nella discussione che in queste settimane si farà inParlamento sulla legge di stabilità, Quella scelta, fuori dai denti, e senza inutili cosmesi lessicali, si chiama “patrimoniale”.

 

Concordo con chi ha giudicato il disegno dilegge del governo come troppo timido e di fatto inefficace per la modestia delle cifre che mobilita. Servono perciò scelte coraggiose per trovare coperture solide. E, in attesa di una spending review che deve fondarsi su una riforma complessiva della pubblica amministrazione, queste coperture non possono che essere reperite attraverso un altrettanto consistente prelievo patrimoniale.

 

In questo senso, faccio riferimento a un articolo che pubblicai sul Sole 24 Ore qualche anno fa. Era il 12 settembre 2009. Scrivevo: «E’ inutile illuderci. La ripresa mondiale arriverà, ma sarà lenta e incerta. E il nostro Paese, senza azioni forti di politica economica, l’aggancerà tardi e male. L’Italia rischia di uscire con le ossa rotte. Laddove le ossa sono il nostro sistema produttivo. Un sistema che nella seconda metà del ’900 ha insegnato a tanti l’arte dell’innovazione. E che ora rischia di essere messo nelle condizioni di non poterlo più fare, condannando il Paese, se non al declino, a uno stabile ridimensionamento del suo ruolo nell’economia mondiale». E’ dove siamo oggi. Soltanto che dopo quattro anni senza “scelte coraggiose”, ci siamo ulteriormente impoveriti e siamo anche più rassegnati e incattiviti gli uni contro gli altri. «Siamo davanti a una situazione straordinaria, ragionavo allora — servono pertanto iniziative straordinarie». Ecco la proposta che facevo: «Serve un abbattimento massiccio e generalizzato delle imposte sul lavoro, sulle persone fisiche e sulle società. Un intervento radicale, nell’ordine di molti punti percentuali su tutte le aliquote. La pressione fiscale pesa in particolare sul cosiddetto “cuneo”, cioé le imposte che trasformano buste paga pesanti per le imprese in buste paga leggere per i lavoratori. E’ soprattutto qui che bisogna agire». Come si pagava – mi chiedevo e mi chiedo oggi – questa radicale cura fiscale? Si può prevedere un effetto di rimbalzo sulle entrate, in considerazione del rilancio dei consumi e dell’economia. Inoltre è prevedibile un effetto in termini di recupero nell’immensa area d’evasione fiscale. Ma soprattutto la si paga «introducendo – scrivevo ieri e rilancio oggi – una forte tassazione permanente sui patrimoni. Non si tratta, evidentemente, di tassare la prima casa a chi ha un modesto appartamento in periferia. Così come andrebbero esclusi i beni strumentali delle imprese. Si tratta piuttosto di spostare il peso del fisco dalla produzione e dal lavoro alla rendita improduttiva. In Italia, secondo i dati di Banca d’Italia, il 10% delle famiglie detiene oltre la metà della ricchezza patrimoniale, cioé oltre 4mila miliardi. E’ su questa base imponibile che si dovrebbe incidere. Un’operazione profandamente liberale, che potrebbe trasformare la struttura fiscale del nostro Paese».

 

Allora, me ne accorgo ora, non usai la parola patrimoniale. Era un’accortezza determinata da un dibattito e da una situazione politica che suggeriva qualche prudenza terminologica. Oggi credo che si possa e si debba parlare esplicitamente di patrimoniale. Siamo con le spalle al muro e solo se sapremo fmalmente premiare la ricchezza che produce lavoro, andando a beneficio dei più, e non quella statica, che va a beneficio di pochi, possiamo pensare di attuare un rilancio dell’economia. Ovviamente con un alleggerimento complessivo della pressione fiscale, non certo un inasprimento, perché i tagli alla spesa possono e devono essere la seconda gamba di questa operazione.

 

Sarebbe, del resto, una riforma in senso liberale, non certo vetero-comunista. Perché favorire fiscalmente chi produce e lavora, penalizzando chi accumula, come ci ha insegnato Luigi Einaudi, é l’essenza stessa del liberalismo democratico.

 

 

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