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La “bolla” del dollaro minaccia il mondo

 

C’è uno scarto assurdo tra le preoccupazioni “politiche” della classe dirigente italiana (la decadenza di Berlusconi, le schermaglie su una “manovra” finanziaria che verrà comunque scritta a Bruxelles e non sarà contrattabile, il futuro di Renzi o del tendem Casini-Mauro, ec), quelle dell’Unione Europea (alle prese con l'”unione bancaria” e con gli effetti destrutturanti di una moneta unica che privilegia il “mercantilismo” tedesco, orientato all’export, e distrugge le economie “periferiche”, in primo luogo l’italiana, ecc) e le dinamiche globali che si concentrano inevitabilmente sul ruolo degli Stati Uniti e soprattutto della loro moneta.

 

Due articoli usciti oggi, su giornali diversi ma egualmente centrali per l’establishment economico (IlSole24Ore e WallStreetItalia), discutono invece apertamente del “declino dell’egemonia americana” e del conseguente “botto” inflazionistico che può distruggere tanta “ricchezza” quanto una guerra termonucleare. O quasi.

 

Non si tratta di ragionamenti svolti da “catastrofisti” di mestiere, e tantomeno di studiosi con simpatie marxiste. Michael Spence ha ottenuto il premio Nobel nel 2001 insieme a Joseph Stiglitz e George Akerlof “per le loro analisi dei mercati con informazione asimmetrica”. Marc Faber è un ivestitore professionale molto noto e parla apertamente degli Usa – il suo paese – come una immensa “bolla del debito” che non potrà che esplodere. L’unica incognita sono le forme, e quindi i tempi, di questa crisi.

 

Finora, in Italia, avevamo avuto quasi soltanto l’analisi di Gianfranco Bellini (La bolla del dollaro, Odradek 2013) intorno a questo problema. E dire che “le sorti del mondo” dipendono dal dolaro e dintorni, non certo dalle mutande di Arcore…

 

Le contraddizioni che rendono “senza via d’uscita” la crisi statunitense sono così numerose che farne l’elenco è già fatica improba. Spence – come fanno tutti i teorici dell’economia – si arrabbia molto con “i politici” statunitensi, apparentemente troppo stupidi per capire che le loro contrapposizioni sul debito pubblico sono un rischio sistemico globale. Ma le contraddizioni della “politica” non sono mai ricondubili alle “individualità” – o ai collettivi partitici – perché vanno invece fatte risalire a diverse componenti del capitale specificamente statunitense.

 

Di qui un secondo ordine di contraddizioni: gli Usa sono il perno dell’economia mondiale, emettono la moneta di riserva adottata e accettata da tutti come “mezzo di scambio”, “unità di misura” e “forma di tesaurizzazione”. Ma non si comportano come un “leader globale”, privilegiando sempre e comunque l’”interesse nazionale”, quindi i capitali basati sul proprio territorio o nelle “colonie” dei paradisi fiscali.

 

Questa gestione comporta da decenni la necessità di importare crescenti masse di capitale, “retribuite” con titoli di stato Usa a rendimenti sempre assai bassi perché considerati “supersicuri”. Ne consegue anche una politica monetaria, da parte della Federal Reserve, perennemente “espansiva”, al punto che tutti ricordano come un incubo il breve periodo in cui Alan Greenspan (in vicinanza con la sostituzione da parte di Ben Bernanke) rialzò i tassi di interesse per cercare di “riportare la normalità” sui mercati finanziari. Una serie di “bolle”, fino al mega-choc del 2007-2008 (l’apice fu segnato dal fallimento di Lehmann Brothers, la quarta banca d’affari del pianeta), costrinero e stanno tutt’ora costringendo la Fed a “regalare droga” – ovvero dollari freschi – al mercato per mantenerlo “liquido”.

 

Per un verso ciò non può piacere a quei paesi – Cina, Russia, produttori di petrolio – che detengono nelle loro casse quantità sconfinate di dollari o titoli del tesoro Usa (il rischio che si svalutino nel tempo è una certezza, non un’ipotesi); per un altro fornisce a quei paesi il potere di non farsi troppo condizionare dalle scelte geostrategiche statunitensi (se n’è visto un esempio clamoroso con la progettata guerra alla Siria). Creando di fatto le condizione per superare l’egemonia americana sul mondo.

 

Il rischio – o la certezza, secondo Faber – è che la continua immissione di “liquidità” nel sistema genererà, prima o poi, un’iperinflazione tale da distruggere insieme la ricchezza globale (in una misura vicina al 50%, è la sua stima) e la leadership statunitense. Senza che ci sia una leadership alternativa già visibile e tantomeno “pronta”.

 

Un “vuoto di potere”, insomma. Non immediato, non semplice, non necessariamente “positivo” (dipenderà da come tutti gli attori globali giocheranno la partita). Ma un vuoto. E la natura non ne ammette a lungo…

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L’impero del dollaro in stallo politico

 

di Michael Spence

 

I Paesi industrializzati sono alle prese con la crescita stentata, gli emergenti devono adattarsi a flussi di capitale instabili. La disfunzionalità politica Usa ha messo in secondo piano problemi fondamentali.
La minaccia di un default americano è stata sventata – per ora – ma il nodo resta: per Repubblicani e Democratici negoziare un compromesso sul bilancio sembra comportare costi maggiori che non impegnarsi in un braccio di ferro sull’orlo dell’abisso.

 

Siamo di fronte a una sottovalutazione dei costi a lungo termine. Qualunque cosa in più di un default tecnico di breve durata infliggerebbe danni tali alla stabilità interna e alla crescita che il sistema politico non potrebbe reggere il contraccolpo. I detentori di buoni del Tesoro, in America e all’estero, vedrebbero un default deliberato come un tradimento della fiducia. Qualcuno si sente rassicurato da questo fatto: sembra suggerire che non si arriverà mai al default. Ciò significa che la fragile economia mondiale, dipendente (per ora) da un unico Paese per la sua valuta di riserva, può sopportare le buffonate della politica Usa.
L’andamento del processo decisionale (o meglio non decisionale) negli Usa ha già creato rischi aggiunti, che si rifletteranno in una pressione al rialzo sui tassi di interesse: e poi entrerà in gioco la Fed. Lungi dal ridurre gli acquisti mensili di titoli a lungo termine, possiamo immaginarci che il già cospicuo stato patrimoniale della Fed dovrà espandersi per contrastare gli effetti negativi di un aumento imprevisto – e rapido – del servizio del debito. E questo in un momento in cui molti (me compreso) sono convinti che dato il rafforzamento dell’economia americana sarebbe cosa saggia abbandonare progressivamente le misure di puntello.

 

Nel resto del mondo, anche un default tecnico produrrebbe effetti gravi. L’Eurozona deve fare i conti con problemi strutturali e di ribilanciamento, ma è riuscita a creare una finestra di stabilità sui debiti pubblici: in caso di default Usa, comincerebbe ad attirare flussi di capitali che provocherebbero una rivalutazione dell’euro, andando ad aggravare la situazione e rendendo impossibile una ripresa della periferia; potrebbero rendersi necessarie misure per contrastare l’«eccesso» di flussi di capitali in ingresso.
La Cina e altri Paesi detentori di titoli di Stato Usa subiranno perdite di capitale, in aggiunta a quelle determinate dall’inevitabile rivalutazione delle loro monete. Nel marzo 2009, Zhou Xiaochuan, Governatore della Banca popolare della Cina, sosteneva che il ruolo del dollaro come principale moneta di riserva andava contro gli interessi dell’economia globale e degli stessi Stati Uniti. In un’economia mondiale in espansione, il Paese fornitore della valuta di riserva è spinto verso disavanzi delle partite correnti, e di conseguenza verso un modello di crescita basato sull’indebitamento, che erode la sua forza e la sua indipendenza costringendolo ad affidarsi sempre più a capitali esteri.

 

Ora vediamo che l’economia globale non dipende solo dalla forza del Paese che fornisce la valuta di riserva, ma anche dai suoi valori, dalla sua disponibilità ad anteporre gli obblighi internazionali fondamentali alle diatribe interne. La crisi di governance americana ha rimesso in discussione questo aspetto. Gli effetti di lungo periodo del paventato default saranno largamente negativi. Per cominciare, rafforzeranno l’idea che le politiche economiche e le relative dispute debbano essere condotte tenendo conto dei problemi e degli interessi nazionali, senza curarsi degli effetti sistemici globali, nonostante questi effetti diventino più importanti. Certe fazioni all’interno del sistema politico americano non sembrano rendersi conto delle enormi ricadute negative che produrrebbe sull’economia interna uno sconvolgimento del sistema finanziario globale. In secondo luogo, i detentori di titoli americani quasi certamente cominceranno a vedere i Treasuries come attività rischiose e cercheranno di diversificare.

 

Non è necessariamente un male (una fuga in massa dai titoli Usa è improbabile: produrrebbe effetti autodistruttivi per molti Paesi, Cina compresa) ma la transizione potrebbe essere accidentata. In terzo luogo, la disponibilità a tenere ostaggio il merito di credito dell’America per fini politici interni accelererà il declino dell’influenza americana sul piano della governance e della gestione dell’economia globale. Nel breve e medio termine, questo declino potrebbe creare un vuoto e produrre instabilità e rischi maggiori, perché, come molti hanno osservato, sono in pochi a poter prendere il posto degli Stati Uniti. La tendenza a una diminuzione del potere degli Usa era già in corso, e in un certo senso è inevitabile. La speranza era che la transizione sarebbe stata graduale e stabile, con gli Usa a interpretare un ruolo guida. Infine, il rischio di default degli Usa potrebbe riportare in primo piano le proposte di Zhou nel 2009 e accelerare la ricerca di un’alternativa praticabile al modello «valuta di riserva emessa da un unico Paese», che ormai non è più utile. Nessuno vuole che il sistema globale sia esposto ai capricci della lotta politica interna di un solo Paese.
L’economia globale dovrà fronteggiare prove terribili: problemi di crescita, occupazione e distribuzione della ricchezza; una riforma istituzionale in Europa; le complessità della transizione da Paese a medio reddito a Paese ad alto reddito in Cina; la necessità di ridurre la povertà nel mondo. Per gestire queste sfide è necessario disegnare un sistema di governance globale in cui la politica interna di un Paese non rischi di mettere in pericolo le prospettive di tutti gli altri.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

 

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Noi siamo la bolla. No exit strategy per la Fed”

Marc Faber, guru dei mercati noto per essere ribassista, lancia l’allarme sulla bolla che distruggerà la ricchezza globale.
NEW YORK (WSI) – “La domanda non deve concentrarsi sul tapering. La domanda è fino a quale punto (la Fed) aumenterà l’acquisto di asset, fino a $150 miliardi, $200 miliardi, o $1.000 miliardi al mese”. Lo afferma Marc Faber, guru dei mercati noto per essere ribassista.
A suo avviso, i mercati si stanno concentrando troppo sul “tapering”, ovvero sull’eventuale decisione della Fed di staccare la spina alla liquidità-droga immessa sui mercati da Ben Bernanke, che al momento viene assicurata con l’acquisto di Treasuries e titoli legati ai mutui per un valore di $85 miliardi al mese.
Ma, in una intervista rilasciata alla trasmissione Squawk Box del canale televisivo Cnbc, Faber descrive la Fed come una sorta di prigioniera di se stessa.
A suo avviso le manovre di quantitative easing rimarranno, ci sarà di fatto un QE4, dal momento che “ogni programma che viene introdotto dai governi in condizione di emergenza e alla stregua di una misura temporanea, risulta sempre permanente”.
Semplicemente, la Fed si è messa in una posizione in cui non esiste una exit strategy e, sebbene al momento l’inflazione intesa come indice dei prezzi al consumo non si sia ancora manifestata, si è verificata comunque una incredibile e spaventosa inflazione dei prezzi degli asset.
“Noi siamo la bolla. Assistiamo a una colossale bolla nel mondo e a una bolla del debito”. A suo avviso, tutto ciò porterà a una “massiccia distruzione della ricchezza (fino a perdita 50% su base globale)”, visto che un giorno questa inflazione di asset si tradurrà in un collasso deflazionistico, in un modo o nell’altro”.

 

WSI Pubblicato il 22 ottobre 2013

 

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