Occhio non vede, cuore non duole. Sembra questa la parola d’ordine dell’establishment internazionale quando deve misurare la disoccupazione reale e quindi il grado di tensione della “coesione sociale”. Sulla base di queste misure si prendono le decisioni di politica economica – di fatto anche sociali, nel senso del welfare – che poi incidono più o meno duramente sulla popolazione.
Il problema è relativamente semplice e inquadrato in modo illuminate nell’articolo da IlSole24Ore che qui di seguito vi proponiamo per la lettura. Con una certezza: la disoccupazione reale è fortemente sottostimata. Dappertutto. Se il potere non vuole vederla, anche se c’è, dovrebbe derivarne un imperativo per i movimenti antagonisti: quella massa sociale va tolta dalla rassegnazione, dalla passività, dal'”arte di arrangiarsi” e invece organizzata come una potente leva di trasformazione sociale.
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Il rubinetto del denaro si apre sul tasso di disoccupazione: la Fed non tiene conto dei 90 milioni che non cercano più lavoro
di Vito Lops
«Il tasso di disoccupazione non può essere considerato più un parametro rappresentativo». Se a dirlo è Ben Bernanke, governatore uscente della Federal Reserve (da febbraio lascerà il posto a Janet Yellen) qualcosa pur dovrà significare. La conferma del fatto che il tasso di disoccupazione è divenuto quantomeno opinabile è arrivata martedì quando sempre gli Usa hanno diffuso il nuovo dato di settembre: in calo dal 7,3% al 7,2%. La disoccupazione è calata (un buon segnale) ma nel frattempo sono stati creati meno posti di lavoro (148mila) di quelli previsti (188mila). Insomma, sono entrate nel mercato del lavoro meno persone di quelle stimate ma il tasso di disoccupazione è migliorato. C’è qualcosa che non quadra.
Cerchiamo di capire perché. L’economia è fatta di numeri, numeri che derivano da calcoli. E questi calcoli, diciamocela tutta, non sempre sono il massimo dell’efficienza. Non sempre riescono a sintetizzare quello che sta accadendo là fuori, nel mondo del tempo reale. E il dato ufficiale sulla disoccupazione è tra questi. Cosa misura?
Secondo la definizione ufficiale dell’Ilo (International labour organization) il tasso di disoccupazione tiene conto delle persone che sono senza lavoro e lo hanno cercato attivamente nelle ultime quattro settimane. Questo è il dato ufficiale sulla disoccupazione. Tutti le altre tipologie di inoccupati sono fuori dalla base della forza lavoro e quindi non rientrano nel calcolo del tasso ufficiale. Ne deriva che sono esclusi gli “scoraggiati”, quelli che hanno smesso di cercare lavoro perché le condizioni economiche li portano a credere che non troveranno un lavoro. Sono esclusi coloro che semplicemente non hanno cercato lavoro nelle ultime quattro settimane e anche i lavoratori part-time che desiderano lavorare a tempo pieno ma non possono a causa della sottocupazione generalizzata che è figlia delle recessione. Da questo computo vengono esclusi anche i lavoratori a nero. Ma questa, ovviamente, è un’altra storia.
Questa tabella indica sei metodi per calcolare il tasso di disoccupazione, da U1 a U6. Si scopre che quello ufficiale (U3) è un parametro parziale che non fotografa a pieno la realtà di chi non percepisce uno stipendio o risulta comunque sottocupato.
Come vengono effettuate le rilevazioni? Attraverso indagini a campione. Negli Stati Uniti l’indagine è condotta da “Cps” (Current population survey), in Europa i dati arrivano dall’Lfs (Labour force survey) e sono basate su su interviste a campione rappresentativo di individui (1,5 milioni nell’Unione europea).
Sulla base di questo campione emergono statistiche ufficiali migliori del previsto. Secondo l’Ilo nel 2012 i senza lavoro nel mondo erano 197 milioni di euro, pari a circa il 6% della popolazione attiva. Nell’Eurozona a fine 2013 il numero dei disoccupati ha raggiunto quota 19 milioni, 7 milioni in più rispetto al 2008 (600mila posti sono andati in fumo anche in Italia). Ma se si estendesse il paniere della forza lavoro anche agli “scoraggiati”, sottocupati e compagnia bella il tasso di disoccupazione reale sarebbe ben più ampio. Circa il 9,3% negli Stati Uniti (secondo UniCredit) e vicino al 15% in Europa (rispetto al 12%).
«Quando un cittadino non trova lavoro viene rimosso dalla base di calcolo dei disoccupati, in un certo senso diviene uno zombie nel senso che non lavora, ma per le statistiche non conta – spiega Gabriele Roghi, strategist di Invest Banca – Negli Stati Uniti il numero dei “not in labour force” è ormai di oltre 90 milioni, cittadini che sono usciti dal calcolo della forza lavoro, ritenuti fannulloni dal Governo».
Il tasso di disoccupazione non è un parametro qualunque. Perché da esso dipendono le scelte di politica monetaria della Federal Reserve. La Banca centrale degli Stati Uniti ha, infatti, come obiettivo quello di portare la disoccupazione al 6,5% e quindi di orientare tassi e strategie monetarie anche in funzione di ciò. Non è quindi un caso se alla luce degli ultimi dati pare che la Fed sia intenzionata a far slittare l’inizio del tapering (il piano di riduzione degli stimoli monetari) da ottobre ad aprile 2014. Ciò significa che le Borse avranno ancora droga monetaria per qualche mese. Ma significa anche che, se si guardasse al tasso di disoccupazione U6, quello con il filtro più alto per intenderci, l’azione condotta sinora dalla Fed sarebbe risultata meno inefficace di quanto possa sembrare.
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