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Maastricht compie 20 anni. Ma nessuno festeggia

 

“Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più”.

Romano Prodi, 1999

Il primo novembre è il giorno dei mostri. Non tanto nella cultura cattolica (“ognissanti”), quanto in quella anglosassone: Halloween. Mostri con cui far divertire i bambini, che si presentano davanti alla porta con l’ossessivo “dolcetto o scherzetto”.

 

Ma anche il mostro vero, quello che ci sta distruggendo la vita, compie gli anni in quel giorno: si chiama Trattato di Maastricht. Quello che doveva far fare un salto di qualità all’Unione Europea, da Comunità solo economica a Unione anche monetaria e politica. Già lì venivano fissati alcuni paletti (i “parametri”) senza alcun riferimento all’economia concreta. Per esempio il 3% come limite del rapporto tra deficit pubblico annuale e Pil; oppure il 60% di percentuale-obiettivo per il rapporto tra debito pubblico complessivo e Pil. Persino Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, autori della bibbia ideologica che ha giustificato “teoricamente” un mostro ossimorico come l’”austerità espansiva”, si erano fermati all’80%, sostenendo che una percentuale superiore si traduceva il rallentamento economico. Mentivano sapendo di mentire, tanto che un semplice dottorando in economia (Thomas Herndon) riuscì a dimostrare in modo inconfutabile che la “teoria” stava in piedi solo a patto di scartare tutti i dati empirici che risultavano in contrasto. Un modo alquanto sbrigativo di “fare scienza”, ma l’economia è considerata non a caso “la scienza che prevede il passato”…

Comunque sia, quei parametri entrarono in vigore proprio il 1 novembra del 1993, insieme a tutta l’architettura “istituzionale” oggi scricchiolante. Solo dopo, chi li aveva proposti (Othmar Issing) o accettati (Romano Prodi), ne mise in dubbio l’utilità empirica o, più drasticamente, li definì “stupidi”.

 In Italia gli effetti furono immediati. Tra il 1992 e il 1993 prese corpo la “concertazione” tra governo, Confindustria e sindacati; una prassi istituzionalizzata che per quasi un ventennio ha cementificato lo scambio tra conferimento di un “ruolo politico” ai sindacati “complici” e il sostanziale blocco della crescita salariale al di sotto dei tassi di inflazione (tramite il meccanism truffaldino dell’”inflazione programmata”, sempre inferiore a quella reale). Ora la concertazione è morta, per volere di Confindustria e governo. E l’unica contrattazione ammessa è quella che deregolamenta il mercato del lavoro, la prestazione, i livelli salariali minimi.

 Nemmeno l’Unione Europea, però, se la passa bene. Di integrazione politica si è quasi smesso di parlare, la “costruzione istituzionale” che doveva essere alimentata sotto la guida del presidente permanente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, è praticamente finita nel dimenticatoio. Lo stesso Trattato di Lisbona, un ingombrante insieme di regole di libero scambio, ha rapidamente perso l’impossibile qualifica di “Costituzione europea”.

 L’unica governance, attuata con sempre maggior vigore, è indirizzata alla unificazione delle politiche economiche e fiscali nazionali sotto il controllo della Troika (Bce, Ue e Fmi). Ultime tappe, come sappiamo, il Fiscal Compact, seguito dal Six Pack e dal Two Pack (che vincola definitvamente la “legge di stabilità” nazionale alla supervisione europea). E ognuno può misurare da solo se questo intervento “austero” sulle proprie tasche abbia minimamente riacceso le prospettive di “espansione”…

 Le reazioni “populiste” – prevalentemente di destra, ma non solo – a questa “camicia di forza” o feroce “cura dimagrante” stanno ora preoccupando molti imbecilli inopportunamente investiti (o autoinvestitisi) del potere di disegnare a tavolino una Unione ricca di deregulation, tagli di spesa e aumenti delle tasse, ma povera di politiche di integrazione. Ovvero: che ha impoverito tutte le popolazioni (Germania compresa, se si guarda al fenomeno devastante dei “mini-job”), tradendo le promesse fondative dell’Unione.

 Dev’essere per questo che l’anniversario verrà celebrato in modo molto riservato, all’interno di alcuni caveau di banca o nei sotterranei di qualche istituzione innominabile (Eurogendfor, per esempio), invece di esser proposto per i festeggiamenti in piazza…

 Quanto all’euro, unica “creatura” viva nata da quel mostro novembrino, benche sia una sorta di Dracula continentale, sta creando più problemi che soluzioni. Basta vedere come anche i giornali mainstream si mostrino ormai preoccupati (se non ancora dubbiosi).

 L’euro vicino a quota 1,40 col dollaro

 Doveva rompersi, ora è troppo forte

 Lucrezia Reichlin

 La famosa «maledizione dell’euro» colpisce ancora. Nonostante la ripresa della sua economia sia fragile e il Fondo monetario internazionale preveda un ben magro tasso di crescita annuale del Pil – meno 0,4 per cento nel 2013 e più 1 per cento nel 2014 contro l’1,6 e il 2,6 per gli Stati Uniti – l’euro ha raggiunto il picco degli ultimi due anni contro il dollaro e si è rivalutato di circa il 10 per cento rispetto alle valute dell’insieme dei suoi partner commerciali.

 Le ragioni sono molte. In parte, ma non solo, spiegate dalla incertezza sul futuro dell’economia Usa, provocata dalla caotica discussione sul debito pubblico negli Stati Uniti e dalla aggressività della politica monetaria giapponese. Ma la verità è che, qualsiasi cosa succeda altrove, appena la situazione comincia a migliorare la nostra moneta si apprezza. E infatti, nonostante le nostre prospettive di crescita siano modeste, il peggio sembra essere passato e, dalla seconda meta di quest’anno, i segnali di ripresa sono emersi in modo sempre piu convincente sia nel Sud sia nel Nord della zona euro.
Con una moneta forte le nostre merci all’estero sono più care (a meno che non si compensi l’effetto cambio con un taglio dei costi). Questo implica una perdita di competitività nel breve-medio periodo che potrebbe rallentare la crescita delle nostre esportazioni fuori dell’area euro, cioè in quelle economie che mostrano un maggiore vigore della domanda.

 C’è chi obbietta a questa osservazione che la competitività di un Paese non si gioca sul cambio, ma sulla produttività, l’innovazione, la capacità di conquistare nuovi mercati e che l’euro forte non ha impedito ai Paesi membri, Spagna e Irlanda per esempio, di passare da un grande deficit della bilancia commerciale a un surplus.
I Paesi della moneta unica hanno risposto alla crisi contraendo la domanda interna e, con più o meno successo, accrescendo la quota delle esportazioni sul Prodotto interno lordo (Pil). Nel 2013 il Fondo monetario stima che la zona euro nel suo insieme raggiungerà un surplus del 2,5 per cento del Pil. Chi ce l’ha fatta ha ottenuto risultati scommettendo sui mercati esteri, in particolare sui Paesi emergenti.

 Nonostante queste osservazioni, un euro che a questo punto della congiuntura europea si rafforza ulteriormente è un fattore preoccupante che potrebbe mettere a rischio la ripresa. Le ragioni sono due.
La prima: il surplus della bilancia commerciale in Paesi come Italia e Spagna è finanziato da un eccesso di risparmio nel settore privato in una situazione in cui la domanda di consumo e investimento è debole. Le banche, nonostante il buon andamento dei depositi, non prestano sia perché devono aggiustare i loro bilanci, sia perché la domanda è debole. D’altro canto lo Stato – indebitato – deve piazzare i suoi titoli pubblici e questi vengono comprati dalle banche. Nello stesso tempo le imprese, complessivamente, hanno un eccesso di liquidità.

 Questo meccanismo ha reso Paesi come Spagna e Italia meno vulnerabili alla volatilità degli investitori esteri poiché il debito pubblico è sempre più in mani domestiche, ma ha «imbastito» l’economia. Con una domanda interna debole che con ogni probabilità rimarrà tale anche con la ripresa, il fattore trainante della crescita sono le esportazioni e in particolare quelle al di là dei confini dell’eurozona. Colpirle ora significa correre il rischio di perdere il treno della ripresa dell’economia mondiale e rendere molto più doloroso l’aggiustamento necessario all’assorbimento del debito. La seconda ragione è dovuta al fatto che l’euroton sintakton forte esercita una pressione al ribasso sui prezzi in un contesto in cui l’inflazione, all’1,1 per cento, è così contenuta da far temere l’entrata in un regime di deflazione simile a quello vissuto dal Giappone negli ultimi vent’anni. La deflazione (la generale diminuzione di prezzi) agisce negativamente sul consumo: chi spende oggi se ci si aspetta che i costi saranno più bassi domani? Inoltre, accresce il peso reale del debito che, insieme alla bassa crescita, è un fattore di rischio per la sua sostenibilità. Come il Giappone insegna, una volta che la deflazione si innesta, è molto difficile liberarsene. Essa modifica i comportamenti dei consumatori e spinge l’economia verso la stagnazione.

 Mario Draghi ha recentemente dichiarato di guardare con preoccupazione alla rivalutazione dell’euro, non tanto per i suoi effetti diretti sull’export ma per quelli indiretti su Pil e inflazione. La Banca centrale europea, come la Federal reserve, non ha un target esplicito sul tasso di cambio, ma deve agire con forza se la dinamica di quest’ultimo dovesse avere l’effetto sui prezzi che è ragionevole prevedere. Ci auguriamo che lo faccia con forza, utilizzando le cartucce che ha ancora a disposizione.

 

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