Se si alza lo sguardo – e il pensiero – dal proprio ristretto cortile all’evoluzione della crisi si prova un certo spaesamento. Qui sulla terra, infatti, le cose vanno peggio giorno dopo giorno. Nell’empireo della finanza globale, invece, tutto sembra procedere per il meglio. Non è vero, ovviamente, ma gli “investitori istituzionali” si comportano “come se” dovesse andare sempre così.
Eppure i giornali che con più attenzione e competenza seguono gli accadimenti macroeconomici mostrano una preoccupazione crescente: l’economia reale non si riprende, le spaventose quantità di denaro liquido emesso dalla Federal Reserve e dalla Banca del Giappone (ma, in misura minore, anche dalla Bce) non si traduce in maggiore credito a imprese e famiglie. La liquidità che le banche acquisiscono a costo zero finisce soprattutto nell’acquisto di titoli di stato oppure sui mercati azionari; e infatti le borse fanno segnare un record dopo l’altro, mentre i rendimenti delle obbligazioni statuali scendo ai minimi termini.
Si creano in questo modo due fenomeni complementari estremamente pericolosi: deflazione e bolla speculativa. La prima viene ormai ammessa esplicitamente, per esempio, da Confindustria, che registra come i prezzi siano scesi nonostante il recente aumento dell’Iva. In linea teorica avrebbero dovuto salire almeno dell’1%, ma i rivenditori stavolta sembrano aver evitato di “scaricare” l’aumento sui prezzi finali. Significa che “la gente” compra già così poco che ogni nuovo aumento si tradurrebbe, per i commercianti, in minori entrate.
C’è chi dice: ma negli Usa questa politica monetaria “non ortodossa”, fatta di 85 miliardi al mese immessi sui mercati, ha prodotto una crescita del Pil e perfino dell’occupazione (dato che invece ha preoccupato “i mercati”, perché la Fed ha legato le iniezioni di liquidità all’obiettivo di ridurre il tasso di disoccupazione al 6,5%; quindi se la disoccupazione si avvicina a quella soglia, si avvicina anche il momento del “tapering”, ovvero della riduzione degli “stimoli” monetari).
Non è proprio così. I numeri vanno letti disaggregando, altrimenti si immaginano processi differenti da quelli reali. E allora, guardando dentro alla “nuova occupazione” statunitense, si scopre che la massa di nuovi posti di lavoro scaturisce esclusivamente dai settori che impiegano manodopera part time; mentre soltanto ad ottobre si sono persi 623.000 posti a tempo pieno. Il monte ore totale dell’occupazione reale si è insomma ridotto, così come il salario medio percepito e quindi anche le possibilità di consumo.
Anche l’inattesa “crescita del Pil” Usa (+2,8%), vista da vicino, risulta molto meno solida: lo 0,85% infatti deriva dalla ricostituzione delle scorte, non da un aumento delle vendite.
Tornando all’Europa, la deflazione ha già costretto la Bce a tagliare nuovamente il tasso di interesse base, ma – arrivati ormai allo 0,25% – lo spazio per altri interventi è davvero minimo. E in ogni caso, come detto, non si tradurrebbe in “maggiore liquidità per l’economia reale”, ma solo in maggiori munizioni per la speculazione finanziaria.
Su questo punto c’è molta confusione tra gli analisti. Persino un attento osservatore come Vito Lops, de IlSole24Ore, accetta di chiamare “keynesiana” la politica di espansione monetaria della Fed pur registrando i fenomeni distorsivi che anche noi abbiamo evidenziato. Semmai bisognerebbe parlare, come aveva fatto Stiglitz in occasione dei precedenti quantitative easing o del salvataggio delle banche d’afffari, di “socialismo per ricchi”. Una “politica keynesiana”, infatti, si tradurrebbe certamente in “maggiore liquidità”, ma prevederebbe anche un intervento statale diretto nella produzione di merci e servizi. Avremmo insomma nuove forme di “Stato imprenditore”. Invece, come sappiamo, si continua dappertutto a privatizzare anche quel poco che è rimasto “pubblico”.
La “liquidità eccedente”, dunque, non crea nuova occupazione, ma contribuisce a distruggere e precarizzare quella esistente. E non risolve nessun aspetto della crisi. Anzi, prepara una “bolla speculativa” di dimensioni inconcepibili che non mancherà di produrre effetti devastanti reali non appena – come sempre avviene – un rialzo dei tassi di interesse mirato a contenere le oiù o meno lontane pressioni inflazionistiche innescherà la fuga dai mercati azionari.
Per il momento i finanziari se la godono, convinti – come sempre – che non toccherà mai a loro pagare il prezzo della crisi.
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È la deflazione, bellezza. Alla Bce il compito di scacciare lo spettro. La Fed ce l’ha fatta nel 2009 con una manovra keynesiana. Cosa farà Draghi?
di Vito Lops
«Il fatto che l’inflazione diminuisca nonostante ci sia stato un aumento dell’Iva significa che siamo in una situazione di vera e propria deflazione, e questo è preoccupante». Così Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, preoccupato anche per il parametro del 3% sul deficit/Pil: «È molto impegnativo per il nostro Paese perché congela le possibilità di fare investimenti sulla crescita». Parole che fanno eco a quelle di Romano Prodi («non ha senso avere gli stessi parametri per 20 anni») in una settimana cruciale per l’Eurozona.
La Bce guidata da Mario Draghi ha tagliato il costo del denaro allo 0,25%. Lanciando – seppur ci siano reali dubbi sul fatto che questa misura riesca a rilanciare l’economia attraverso il credito a famiglie e imprese che sbloccherebbe sviluppo e consumi agevolando la ripresa della domanda interna, tallone d’Achille di questa crisi – un doppio segnale ai mercati: la Bce è pronta a intervenire in un quadro economico che non è dei migliori. Anche perché sull’Eurozona incombe lo spettro della deflazione dopo che a ottobre l’indice dei prezzi al consumo è sceso allo 0,7% su base annua rispetto all’1,1% di settembre. E si tratta della “deflazione cattiva”, quella causata da un calo della domanda (e non da un aumento dell’offerta che riduce i prezzi a vantaggio dei consumatori e quindi viene definita “deflazione buona”).
Una paura al momento scongiurata dallo stesso Draghi («se vogliamo definire la deflazione come un calo generalizzato, e che si autoperpetua, dei prezzi nell’Eurozona, non lo vediamo») ma che preoccupa persino il Fondo monetario internazionale («i rischi di deflazione non sono scomparsi del tutto».
Del resto, in questo momento – quando il numero dei disoccupati in Europa ha raggiunto quota 19 milioni, 7 milioni in più dallo scoppio della crisi segnando la progressione maggiore dai tempi della Seconda Guerra Mondiale – le dichiarazioni ufficiali non sempre poi vengono dimostrate nei fatti.
Quindi i rischi che l’Eurozona cada in deflazione non possono essere esclusi. E a questo punto vale la pena ricordare il precedente degli Stati Uniti. A marzo del 2009 l’indice dei prezzi al consumo scese sotto zero, come non accadeva dal 1955. Nello stesso mese la Federal Reserve inaugurò il primo piano di quantitative easing (espansione monetaria attraverso l’acquisto di titoli di Stato e titoli agganciati ai mutui subprime). Già a fine dello stesso anno l’inflazione ripartì e si avvicino al 2% per poi sfiorare il 4% l’anno successivo. Oggi però è scesa all’1,2%, nonostante una montagna di soldi riversati sui mercati con tre piani di quantitative easing (il terzo è ancora in corso).
Questo anche perché questa liquidità non si sta riversando automaticamente nell’economia reale e nella maggior parte dei casi finisce in investimenti azionari (non a caso venerdì il Dow Jones ha aggiornato il massimo storico). In fondo è proprio questo il problema della deflazione (o dell’inflazione troppo bassa e lontana dal target del 2% fissato tanto dalla Bce quanto dalla Fed): l’incapacità degli stimoli monetari di finire a famiglie e imprese. Lo stesso è accaduto in Europa: dal 2009 la Bce con modalità diverse ha immesso liquidità nel sistema aumentando la base monetaria ma questa poi non si è tradotta in M3 (offerta di moneta) perché buona parte di questa moneta è stata utilizzata dalle banche per acquistare titoli di Stato. La cinghia di trasmissione tra finanza ed economia reale è ancora bella che inceppata. Ed è questo il primo problema da risolvere. Per far ripartire l’economia e allontanare gli spettri della deflazione.
La sfida arriva in un momento cruciale in cui la Fed e la Banca centrale si avviano a imboccare strade diverse. La Fed dovrebbe annunciare entro la prima metà del 2014 (ma c’è una minoranza di analisti che pensa già a dicembre) il tapering (la riduzione del piano di stimoli monetari). Mentre la Banca centrale europea è chiamata a un ulteriore sforzo espansionistico, pur con mezzi più limitati rispetto a quelli di cui dispone la banca americana. Come visto, la Fed ha vinto la deflazione con una manovra keynesiana. Cosa farà adesso la Bce?
da IlSole24Ore
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