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Weidmann nervoso, attacca la Bce (e la Francia)

Quando si deve affermare un interesse innominabile o impresentabile, si tira sempre fuori una teoria. Inevitabilmente fasulla, perché ciò che dovrebbe esser dimostrato “buono” è proprio quello che non funziona.

La gestione della crisi economica all’interno dell’Unione Europea ha preso una torsione deflazionistica per “merito” dell’interesse tedesco a conservare i vantaggi ottenuti nel corso dei primi dieci anni di introduzione della moneta unica: competitività superiore a quella di tutti i partner dell’eurozona (una diversa e più avanzata “conmposizione organica” e “tecnica” del capitale, misurata però con l’identica moneta), che ha permesso di ridisegnare le filiere produttive continentali ponendo al vertice le imprese – specie manifatturiere – germaniche.

Non sarebbe stato un grande problema se questa ristrutturazione produttiva non si fosse realizzata nell’ambito di una “politica mercantilista”, orientata alle esportazioni molto più che allo sviluppo del mercato interno. Politica che ha fatto la fortuna delle imprese esportatrici tedesche e ha strozzato i “contoterzisti” attivi negli altri paesi, costretti a “competere” fra loro su prezzo e qualità.

Allo stesso tempo, il fortissimo surplus tedesco delle partite correnti (rapporto tra export e import) ha dato un robusto contributo nel rendere i titoli di stato di Berlino molto richiesti, al punto da garantire interessi praticamente pari a zero ben prima che la Bce azzerasse i tassi base. Cosa significa? Che da anni la Germania rifinanzia il proprio debito pubblico “a gratis”, pagando cedole di centesimi là dove gli altri paesi debbono svenarsi per continuare ad attirare “compratori” dei propri bond. È la legge dello spread, lo sappiamo ormai quasi tutti.

Su questo c’è una letteratura vasta e convergente. Ovviamente i vertici tedeschi negano sia questa la realtà, dipingendo se stessi come “virtuosi” attenti all’equilibrio di bilancio e gli altri come “cicale” spendaccione.

Il presidente di Bundesbank, Jens Weidmann, il “falco” del rigore di bilancio che cerca di tenere al guinzaglio anche la Bce (è il membro più autorevole, ovvero “pesante”, del direttivo), è tornato anche ieri su tema, invitando la Bce stessa a “non essere ostaggio della politica”.

Intendeva dire “degli altri governi europei”, visto che il mito della “banca centrale indipendente e chiaramente orientata al contenimento dei pezzi” è per l’appunto un mito che soltanto nell’Unione Europea ha l’apparenza – e solo quella – della realtà.

Il modello mercantilista tedesco ha ormai esaurito anche per la Germania le proprie “capacità propulsive”, tanto che i dati recenti (ordinativi all’industria, consumi, esportazioni, ecc) stanno descrivendo anche per Berlino uno scenario recessivo.

Di cosa è preoccupato Weidmann? Del fatto che la Bce, come annunciato da Draghi a Napoli, acquisti titoli “Abs” (“derivati” di dubbia qualità) e titoli di stato dei paesi in difficoltà. Sarebbe certo una “iniezione di liquidità”, utile alle banche che hanno quei titoli in cassaforte e anche ai paesi interessati. Ma questa operazione implica il rischio – orrendo agli occhi di Weidmann – di una “mutualizzazione del debito” fra partner europei. Essendo Berlino il partner più ricco e più “liquido”, in altri termini, finirebbe per pagare parte dei debiti altrui; accumulati peraltro “grazie” alle politiche imposte da Berlino alla stessa Ue.

La preoccupazione è ingigantita, in questi giorni, dalla dichiarata intenzione francese di sforare il rapporto tra deficit e pil: invece di rientrare nel 3%, arriveranno al 4,4. Peggio: ieri il primo ministro francese Manuel Valls ha tirato fuori un ragionamento fortemente “nazionalistico”: «C’è un solo parlamento incaricato di approvare o meno il bilancio della Francia. È il parlamento francese». 

Si riferiva esplicitamente alla possibilità che la legge di stabilità di Parigi possa essere bocciata dalla Commissione, dove gli “affari economici” sono in mano a due fantocci di berlino (il finlandese Jyrki Katainen e il lettone Valdis Dombrovskis). Sarebbe il primo caso di applicazione dei trattati su questioni di bilancio, visto che neppure alla Grecia era mai toccata una “sanzione” del genere. Valls in pratica ha detto: “non ce ne frega nulla del parere della Ue”.

Weidmann, insomma, parla a suocera perché nuora intenda (non può, da banchiere centrale tedesco, sparare a zero contro un governo comunitario come la Francia, il “secondo pilastro” dell’Unione). Quindi ha incautamente rispolverato la famosa tesi di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, secondo cui un debito pubblico superiore al 90% del Pil impedisce la crescita economica.

Un vero infortunio “teorico”, per un tecnico del suo livello. In primo luogo perché i trattati di Maastricht impongono un livello di debito pubblico addirittura molto inferiore (il 60%, che dal prossimo anno il Fiscal Compact imporrà di raggiungere a forza di tagli alla spesa per i prossimi venti anni) a quello teorizzato dai due economisti ultra-liberisti.

In secondo luogo, perché la tesi di Rogoff-Reinhart, contenuta in un libro decisamente discutibile, è stata dimostrata inconsistente già a livello metodologico. In pratica, i due economisti avevano preso in considerazione soltanto gli esempi empirici coerenti con la loro tesi precostituita, scartando tutti quelli che ne avrebbero confutato la consistenza. Due ideologi, insomma, per quanto “fortunati” e applauditi, non due scienziati.

Weidmann, dunque, per difendere il “modello mercantilista” allo sbando, è costretto ad arrampicarsi sugli specchi e raccontare frottole. Come un “politico” qualsiasi.

Ecco. Se questo è il meglio che possono dare i “tecnocrati” che governano l’Unione Europea, siamo davvero in buone mani…

 

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