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Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Jan Toporowski (prima parte)

Continua il ciclo di interviste ad economisti ed economiste eterodosse a cura di “Noi Restiamo”. Dopo Joseph Halevi, Giorgio Gattei, Luciano Vasapollo e Marco Veronese Passarella è la volta di Jan Toporowski.

Toporowski è professore di Economia e Finanza presso la School of Oriental and African Studies dell’Università di Londra. Ha lavorato nel settore bancario internazionale, nella gestione di fondi e presso banche centrali. Il suo libro più recente è Michał Kalecki, An Intellectual Biography Volume 1 – Rendezvous a Cambridge 1899-1939 pubblicato da Palgrave.

È disponibile anche la versione inglese dell’intervista (English version). 

Noi Restiamo è una campagna nazionale partita a Bologna a fine 2013. Il gruppo è composto da giovani studentesse e studenti, lavoratori e lavoratrici. Per maggiori informazioni potete visitare: http://noirestiamo.noblogs.org/ 

Noi Restiamo: L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite l’andamento del saggio tendenziale di profitto. Una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa? 

Jan Toporowski: Ci sono alcune teorie che principalmente sono state scelte fra i più critici degli economisti eterodossi.  I Keynesiani sostengono che la crisi sia stata generata da una contrazione della politica fiscale. Durante la crisi bancaria è emerso un particolare fenomeno per cui i governi sono stati obbligati a rifinanziare le banche, questo ha dato luogo a indebitamento da parte del governo senza che in realtà esso spendesse nulla nell’economia. Pertanto, guardando al deficit o ai surplus primari c’è questo fatto, che l’indebitamento del governo ha dato luogo ad una politica fiscale restrittiva. 

Credo che in qualche aspetto questo sia vero, ma credo anche che le teorie generali tendano a sottostimare largamente i problemi del debito nell’economia ed in particolare i problemi di debito dei governi, particolarmente evidenti in Europa.

La seconda teoria è quella di alcuni marxisti, che associano la crisi alla caduta tendenziale  del saggio di profitto e certamente alcuni marxisti e post-keynesiani sostengono che questo si ricolleghi alla finanziarizzazione, ora che larga parte del  prodotto mondiale viene speso per ripagare interessi sui titoli finanziari. Loro vedono questo aspetto come fondamentalmente sbagliato e come fattore di compressione dell’attività economica. Questo è quello che chiamo l’approccio “usuraio” alla crisi finanziaria. In altre parole la crisi finanziaria sarebbe causata da un’eccessiva estrazione di denaro dalla circolazione reale e questa estrazione nei mercati finanziari. È una teoria del denaro molto grezza. Essenzialmente prende il fenomeno del capitalismo commerciale ed afferma che questo è il problema attuale. Io credo che ci siano dei problemi concettuali nel modo in cui vede il denaro ed il credito ed io non credo che [questi autori] abbiano realmente capito cosa succede nei mercati di capitali. 

Quindi questa era la seconda visione, penso ci sia anche una visione Austriaca, che vede la crisi originata da eccessivo investimento, beh, questo potrebbe essere possibile in Cina, ma sicuramente non negli USA né in Europa negli ultimi anni. 

La mia è una visione molto specifica sul modo in cui la crisi si è verificata. La crisi si è verificata perchè una serie di corporation molto grandi a partire dagli anni 2000 si è espansa molto tramite fusioni ed acquisizioni, che sono state in gran parte finanziate da debiti a breve termine. Nel 2008 il loro piano era rifinanziare questo debito a breve termine nel mercato azionario. Ma nel 2008 queste grandi aziende si sono scoperte incapaci e bisognose di rifinanziare questo debito, non potevano rifinanziarlo sul mercato del debito a breve termine, perchè era bloccato, e non potevano emettere nuova equity, perchè il mercato dei capitali era congestionato, esso stesso era crollato, e tutti sapevano che le banche non avrebbero fatto grandi emissioni di nuovo capitale. Quindi, queste corporation hanno risposto alle loro difficoltà finanziarie riducendo gli investimenti: io credo che il fattore chiave della crisi non sia stato il collasso di Lehmann Brothers, ma il declino degli investimenti avvenuto nel 2008. Queste corporation hanno tagliato i progetti di investimento della metà o dei due terzi in molti casi, e questo è ciò che stiamo scontando al momento, con il grande calo di attività economica e la crescita della disoccupazione. 

NR: Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea? 

JT: Prima di tutto, la crisi è molto differente fra USA e UE. Questo per una ragione molto semplice: gli americani hanno un mercato molto liquido per i titoli di stato, e non hanno avuto problemi con l’aumentare il proprio deficit fiscale e a mettere in atto manovre fiscali espensive che hanno stabilizzato la situazione.  Certo, non hanno portato gli USA fuori dalla crisi, nel senso di generare una ripresa forte, ma hanno certamente avuto un andamento dell’economia migliore di quello europeo. 

In Europa il problema è la paura del debito, esemplificata dal Trattato di Maastrich. La paura del debito significa che le operazioni finanziarie che sono necessarie per il capitalismo moderno avvengono molto più difficilmente in Europa rispetto agli Stati Uniti.

Questo è il motivo per cui il tentativo di superare la crisi attraverso la politica fiscale è stato considerevolmente più debole di quello statunitense. 

Riguardo al ruolo di classe dell’UE. L’Unione Europea è originariamente nata come un’istituzione di “governance” economica fondata su una sorta di tripartitismo, in cui sono venivano consultati i datori di lavoro e i rappresentanti dei lavoratori. Tutto questo è stato superato dal forte impulso deflazionistico tedesco, imposto tramite l’abbassamento dei salari. Questo è molto pericoloso in un’economia fondata sul credito, perchè se si tagliano i salari non solo si riduce la domanda domestica, ma si incrementa anche il valore reale del debito. Penso che questo abbia dato origine ad una pericolosa tendenza a cercare di superare la crisi con la convinzione che salari più bassi  avrebbero creato una maggiore domanda di lavoro. Questo è un errore. 

Allo stesso tempo, non credo alla teoria -avanzata da alcuni Post-Keynesiani- che contrappone una crescita guidata dai salari ad una crescita guidata dai profitti. Questa è un’argomentazione sottoconsumista, che risale alle idea dei socialisti ricardiani, per i quali la ragione per cui c’era la disoccupazione o comunque una domanda aggregata non sufficiente era da ricercare nel fatto che i lavoratori non ricevono l’intero valore del loro lavoro.

È vero che i lavoratori non ricevono l’intero valore del proprio lavoro, ma questo [la domanda dei lavoratori, ndr] non costituisce il totale della domanda aggregata, perchè ciò che questa teoria ignora è ciò che sta accadendo con gli investimenti, e il problema fondamentale ora in Europa sono proprio gli investimenti. 

Dunque, questo mi porta a domandarmi come verrà superata la crisi. Il modo naturale del capitalismo sarebbe attraverso gli investimenti. Questo si potrebbe fare abbastanza facilmente. I dati dimostrano che un grande numero di corporation, dopo aver subito gli effetti della crisi dal 2008-2010, stanno attualmente sedute su una grande massa di liquidità. Se incominciassero invece  a spenderla questo migliorerebbe la situazione.

Riguardo all’ultima parte della domanda, io non credo che l’Unione Europea abbia un carattere socialmente neutrale. Penso  che le idee che abbiano dato vita all’Europa e abbiano formato la sua politica economica siano idee di capitalisti che non hanno compreso come funziona la moderna economia capitalista.

Non hanno neppure capito la necessità che esiste in Europa di aver una politica economica centrale, più forte e coordinata. Perché questo punto è così importante?

Lo è poiché non ritengo che si possano applicare politiche Keynesiane in un solo stato: se così fosse quel paese finirebbe con avere difficoltà commercial. Gli avanzi commerciali si ridurrebbero, e questo fatto viene utilizzato dal grande capitale come scusa per affermare che la situazione è instabile e sia necessario sbarazzarsi delle politiche keynesiane. Tuttavia le politiche keynesiane potrebbero almeno in parte funzionare se ci fosse un giusto coordinamento tra partner commerciali. L’Unione Europea potrebbe effettuare queste scelte, potrebbe fare investimenti su larga scala.

Inoltre potrebbe sussidiare i consumi, i consumi dei lavoratori in particolare, poiché l’Unione Europea in un certo senso sta al di sopra delle grandi imprese. È infatti più grande di qualsiasi impresa nazionale. Ed è per questo che penso che l’Unione Europea  abbia un ruolo ambiguo in tutto questo ed abbia bisogno in primo luogo di cambiare la maniera in cui affronta le sue scelte di bilancio, ed in particolare il suo debito pubblico.

Fine prima parte (segue)

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