Mario Draghi muove i mercati, si sa. E anche ieri la sua audizione davanti alla commissione affari economici del Parlamento europeo ha avuto l’effetto di galvanizzare borse che erano partite depresse dalla caduta del Pil giapponese, dai prezzi in discesa libera del petrolio (sembra una buona notizia, ma è un segnale di debolezza eocnomica globale), dallo scetticismo generale sulla “ripresa”, sempre annunciata sempre rinviata.
La sua frase chiave è stata quella più attesa: la Bce «è unanime nel sostenere possibili misure addizionali non convenzionali», al punto potranno «cambiare ulteriormente la quantità e la composizione dei conti del sistema dell’euro», e persino «potrebbero includere l’acquisto di bond sovrani».
Insomma: se sarà necessario, la Bce comprerà titoli di stato emessi dai paesi che hanno difficioltà a raccogliere denaro sui mercati. È un passo avanti deciso verso quella “mutualizzazione del debito sovrano europeo” che la Germania (e qualche paesetto minore, ma molto ben messo) teme come la peste. Poco prima, sapendo quel che avrebbe detto Draghi, il lussemburghese Yves Mersch, membro del Comitato esecutivo della Bce, aveva meso mani e piedi avanti: «È da meno di un mese che abbiamo cominciato a comprare covered bond. Con gli asset-backed-securities, stiamo iniziando proprio adesso. È essenziale aspettare per vedere come si sviluppano questi programmi» prima di fare altre mosse. Insomma: avanti frenando…
La cose più interessante, però, è quella che meno ha raccolto l’attenzione dei mercati ed anche dei giornalisti economici: la Bce spiega di aver fatto già molto e i frutti si stanno vedendo: “ci sono i primi segnali che il nostro pacchetto di misure per aiutare il credito sta dando risultati tangibili, ma ci serve più tempo per vederli materializzare pienamente”. E’ evidente infatti che “siamo ancora in una situazione dove la nostra politica monetaria accomodante non raggiunge in modo sufficiente” l’economia reale.
I soldi liquidi in giro ci sono, ma non vengono inevstiti in attività produttive.
Perché? Questo non viene spiegato da nessuno, neanche da Draghi. Vediamo un po’ come funziona. Le principali banche centrali del pianeta (Federal Reserve, Banca d’Inghiltera, Boj giapponese, Bce, la banaca centrale cinese) da anni stanno inondando i mercati di liquidità. Che significa? Che prestano soldi alle banche, a interessi zero. Ovvero regalano soldi, perché il tasso di inflazione, per quanto basso, è ovunque al di sopra dei tassi di interesse praticati dalle banche centrali.
Cosa fano le banche con quei soldi? Se li tengono in cassa, per consolidare bilanci disastrati dalla crisi finanziaria post-subprime e Lehmann Brothers; oppure li investono in attività di borsa (e quest le fa “correre”, anche se l’economia va male); oppure ancora per alimentare il proprio sistema di shadow banking (il mercato dei “prodotti derivati”, fuori di ogni controllo sia pubblico che privato; il regno della truffa). Insomma: tutto meno che prestarli a famiglie e imprese.
Le stesse istituzioni europee, d’altro canto, stanno favorendo questa soluzione. Gli stress test sulle banche imposti dall’Eba (autority che controlla lo stato di salute degli istituti finanziari) sono stati condotti sulla base di criteri quantomeno opposti ai risultati sperati: hanno infatti “punito” con voti negativi le banche che avevano prestato di più a famiglie e imprese, considerando queste attività come “molto rischiose”; ed hanno al contrario premiato le banche private più speculative, considerando gli investimenti finanziari su titoli anche improbabili (“spazzatura”) come attività “sicure”. Un chiaro incitamento a non far circolare soldi nell’economia reale.
Tra tutte le economie continentali, quella più dipendente dai prestiti bancari è proprio quella italiana. Una poderosa analisi condotta ieri da Marco Panara su Repubblica spiega come questa dipendenza sia ormai un cappio al collo delle imprese nazionali, in genere troppo piccole per potersi permettere di raccogliere denaro sui mercati collocando titoli corporate.
Ma il gioco non ha molte variabili: la raccolta di capitale o avviene tramite prestiti bancari, o tramite emissione di titoli, o con pratiche ai limiti della legalità (appalti e subappalti pubblici, da gonfiare strada facendo). Se queste strade sono precluse, un sistema produttivo con le caratteristiche di quello italiano è fottuto, qualsiasi cosa faccia. Neanche comprimendo il costo e i diritti del lavoro al di sotto dei livelli dei diretti concorrenti, infatti, si può migliorare la “competitività” delle proprie merci; la quale dipende dagli investimenti fissi, in tecnologia, non dal costo del lavoro. Insomma, anche il jobs act è una misura per venire incontro alle esigenze di cadaveri che camminano, di imprenditori incapaci o dalla visione “familistica”.
Naturalmente Draghi non può dire queste cose. Quindi anche lui recia come un disco rotto la litania delle “riforme strutturali”, che vanno ancora a “ritmo troppo lento”, anche se i paesi che sono andati più avanti su questa strada – come la Grecia – sono ancora al punto di partenza, tanto da rischiare altri default a breve termine. E fa quasi ridere dire che un paese “è tornato a crescere” (dell’1%), dopo aver lasciato sul campo – grazie alla “cura” della Troika – oltre il 25% del proprio potenziale produttivo.
«Lo slancio di crescita della zona euro si è indebolito durante l’estate, le recenti stime sono state riviste al ribasso, e la ripresa è messa a rischio da disoccupazione alta, capacità produttiva inutilizzata e necessari aggiustamenti di bilancio», ha detto Draghi. Ed anche i «rischi geopolitici minano la fiducia».
Fine delle soluzioni. La politica monetaria, da sola, non risolve nulla. E per gli investimenti bisognerà chiedere permesso…
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