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L’Opec non taglia la produzione, i prezzi crollano

L’Opec non trova l’accordo sul taglio della produzione, indispensabile per tenere su livelli “decenti” prezzi in caduta libera da quattro mesi. A Vienna, sede storica del cartello che riunisce 13 paesi “grandi produttori” (ma mancano Russia e Stati Uniti, con output al livello dell’Arabia Saudita), il ministro saudita Al Naimi si è pres la responsabilità di comunicare ufficialmente che la quota di produzione Opec resta ferma a 30 milioni di barili al giorno, e di affidare quindi l’andamento del prezzo al “libero mercato”. E immediatamente la quotazione della qualità Wti è scesa sotto i 70 dollari al barile .

In realtà il libero mercato c’entra molto poco, come spiegavamo ieri. Si tratta invece di una complessa partita con molti soggetti “forti”, sostanzialmente riducibile a tre fronti: gli Stati Uniti (le cui multinazionali hanno bisogno di vendere shale oil e shale gas rapidamente, per ripagare gli ingenti debiti contratti per inaugurare questo nuovo fronte), la Russia e gli altri paesi fortemente dipendenti dalle esportazioni di greggio (Russia, Venezuela, Iran, ma anche Norvegia e quasi tutti i membri dell’Opec), l’Arabia Saudita (contemporaneamente pro-Usa perché i bassi prezzi colpiscono i suoi nemici, e anti-Usa perché un prezzo sotto i 70 dollari porterà al fallimento i corsari dello shale).

A questo punto, in ogni caso, il prezzo del greggio non ha un limite verso il basso, anche perché la crisi economica riduce la domanda di energia proprio mentre alcune compagnie e paesi hanno più necessità di realizzare profitti. Ma il “libero mercato” davvero, non c’entra. I membri dell’Opec, infatti, estraggono greggio a seconda della quota decisa dal cartello (in proporzione alle “riserve accertate” dichiarate), non “più che possono”. Anche perché il greggio, come sanno benissimo, sta diventando un bene scarso.

 

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