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Sanzioni suicide per la Ue. La Russia cancella il South Stream

A chia faranno male le sanzioni volute dagli Usa e avallate – con limitazioni – dall’Unione Europea contro la Russia? Più all’Europa che alla Russia, vien da dire.

Il perché è abbastanza chiaro: l’Europa dipende dalle importazioni di gas e petrolio per far fronte al suo fabbisogno energetico, mentre la Russia – che dipende certamente dalle esportazioni di queste materie prime – può scegliere tra vari possibili clienti. Prima di tutti la Cina, con cui ha concluso accordi per 400 miliardi di dollari.

L’Europa non ha molti fornitori alternativi. Accettando la strategia statunitense ha prima eliminato e poi recuparato con grande lentezza un esportatore come l’Iraq. Le sanzioni Usa rendono l’approvvigionamento dall’Iran scarso e rischioso. La Libia è stata azzerata – come produttore ed esportatore – per autonoma iniziativa anglo-francese; eliminato Gheddafi, da lì arriva poco o nulla, soprattutto non si possono pianificare rifornimenti futuri sicuri.

L’Arabia Saudita e l’Algeria mandano qui molto della loro produzione, ma non possono coprire da sole la domanda potenziale di un sistema industriale integrato e abitato da mezzo miliardo di persone.

Il mito dello shale oil e dello shale gas statunitensi è, per l’appunto, solo un mito. Gli Stati Uniti, infatti, non hanno mai neppure iniziato a costruire le infrastrutture portuali (gassificatori, ecc)  sulla costa orientale, che sarebbero indispensabili per l’esportazione verso l’Europa. Nè sembra logico che gli Usa esportino energia dopo tutta la fatica fatta per recuperare una minore dipendenza dalle importazioni. In ogni caso, il basso prezzo del petrolio – oltre il 40% in meno da giungo a oggi – sta facendo diventare anti-economica la tecnica estrattiva del fracking. Le previsioni più attendibili parlano di prossimi fallimenti in serie per le società impegnate nell’estrazione dello shale, indebitatesi per cifre colossali sui mercati finanziari e ora alle prese con un prezzo che non copre neppure i costi industriali correnti.

Restava solo la certezza russa. E ora non c’è più. A mettere una pietra tombale sul gasdotto che dal 2018 avrebbe dovuto portare in Europa il gas russo aggirando l’Ucraina è stato lo stesso Vladimir Putin, ieri, mentre era in visita in Turchia (paese che avrebbe dovuto essere atrraversato dalla pipeline): «Se l’Europa non vuole realizzarlo, non verrà realizzato». Alexej Miller, amministratore delegato di Gazprom ha immediatamente sigillato la decisione: «Il progetto è finito».

Per capire quanto pesi una decisione del genere, in genere, si guarda alle quotazioni di borsa. In questi giorni il settore energetico è sotto stress, con perdite generalizzate per tutte le società petrolifere mondiali. Quella che va meglio, che addirittura non ha perso quasi nulla (-1,5%), è proprio la russa (e governativa) Gazprom.

Per l’Italia, in particolare, si tratta di una notizia doppiamente ferale. Nonostante fosse giù stata, di recente, cancellata dal tracciato previsto per South Stream, l’Eni era rimasta comunque socia al 20% nella joint venture che doveva costruire e gestire la condotta subacquea nel Mar Nero. Per la ex controllata Saipem si calcola una perdita di quasi due miliardi. In secondo luogo, tutte le forniture conteggiate – in futuro – su questa linea andranno reperite altrove.

Putin, serafico, ha spiegato che la Russia ora preferisce «ridirigere le sue risorse energetiche verso altre regioni del mondo». Oltre alla Cina, principale cliente futuro e alleato “di necessità”, anche la stessa Turchia. Gazprom dovrebbe costruire insieme alla turca Botas un altro gasdotto, equivalente per portata a South Stream.

Siete sanzionati, coglioni!

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