La tecnologia cambia il mondo, il modo di lavorare, i mestieri, il modo stesso di pensare. Lo dicono tutti, ce lo ripetono ad ogni angolo. L’unica cosa che non ci dicono è come si fa a sopravvivere nel cambiamento costante, rapido, che non concede tempi lunghi di apprendimento perché – banalmente – le competenze da acquisire per essere “appetibili” dureranno probabilmente meno del tempo necessario a farle proprie.
Facciamo un esempio? Cambiamo il cellulare spesso – i maniaci almeno una volta l’anno – i sistemi operativi si susseguono (solo cinque-sei anni fa nessuno sapeva che a Google stavano mettendo a punto Android), le apps coprono campi infinitamente superiori a qualsiasi necessità ci venga in testa (non importa se vera, derivata, instillata, ecc). Il 90% di quel che ci si può fare, con uno smartphone, eccede l’uso che ne fa anche il pubblico più “nativo digitale”. Persino l’adolescente che non riesce a scollare gli occhi dallo schermo, a guardarlo da fuori, scorazza al massimo tra alcuni giochi, la chat, la messaggistica e qualche informazione su Internet.
Così è per tutto. Nelle automobili non c’è più lo spinterogeno, non puoi più regolare il minimo a mano, non ti devi più preoccupare nemmeno di saper parcheggiare (manca poco perché venga generalizzata anche questa “app”). In compenso, si fa per dire, quando la macchina si ferma non sai più nemmeno perché. Né come farla ripartire.
Sì, va bene, ma cosa c’è di sbagliato? Nulla, ci mancherebbe, è l’evoluzione del sistema, non si può fermarla. Basta essere consapevoli di quel che accade a noi umani “semplici”, senza ruoli direttivi nel mondo del capitale, delle grandi mutinazionali finanziaerie e non, degli organismi sovranazionali che pretendono di decidere anche quante volte ci possiamo soffiare il naso.
Un articolo per esemplificare la situazione (“I mestieri del fututo? Non esistono ancora”, di Paolo Mastrolilli, La Stampa). Una volta fatta la tara all’ideologia del nuovismo tecnologico, quel che resta è assai semplice. Anzi, assai poco: inutile star lì a pensare a cosa vorrete fare da grandi, a studiare per fare un mestiere preciso. L’unica vostra salvezza sta nell’esser disponibili a tutto, flessibili fino all’inverosimile.
E’ proprio così? Non per tutti. I ruoli direttivi, creativi, inventivi, così come le “professioni liberali” (dagli avvocati agli architetti, dai medici agli ingegneri, ecc), dovranno cambiare soltanto il desk con cui lavorano. Ovviamente usando più strumenti tecnologici, che verranno messi a disposizione a cadenza stagionale. Ai grandi finanzieri – riguardatevi Margin call, per capire di cosa stiamo parlano – o ai grandi chief executive delle mutinazionali, così come al personale direttivo degli Stati, servirà come sempre soltanto capire “dove tira l’aria” e dare le disposizioni ai sottoposti affinché indirizzino tecnicamente la barca là dove indicano.
Per tutti gli altri esseri umani – la quasi totalità dei miliardi di persone che abitano il mondo – sarà invece aperta la gara della flessibilità universale, in cui l’unica dote richiesta è la “docilità” associata alla rapidità nell’apprendimento della mansione richiesta. Per un po’ di tempo, a termine, perché presto diventerà obsoleta e sostituibile; anzi, da sostituire. Proprio come ognuno di voi. Se non reggete lo stress, cazzi vostri…
Vi piace questo futuro?
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I mestieri del futuro? Non esistono ancora
Il Labor Department Usa: non basta studiare, il segreto è la flessibilità
La prossima volta che uno studente vi chiede consigli sul futuro della sua carriera, non vergognatevi di non avere risposte: il 65 per cento dei ragazzi che sono oggi a scuola, infatti, farà un mestiere che non è stato ancora inventato. Preoccupatevi piuttosto di offrire suggerimenti su come diventare più «impiegabili» possibile, che poi valgono pure per chi oggi un lavoro ce l’ha, ma fra dieci anni potrebbe vederlo sparire. Tanto la chiave, per tutti, resta quella di cambiare l’istruzione e l’aggiornamento.
Il primo avvertimento di questo tipo lo aveva lanciato Cathy Davidson, oggi direttrice della Futures Initiative alla City University of New York, e codirettrice delle MacArthur Foundation Digital Media and Learning Competitions. Lo aveva fatto con il libro «Now You See It», ma simili concetti poi sono stati ripresi un po’ ovunque, compresi gli studi del Labor Department americano. La tecnologia sta provocando un mutamento storico del mondo del lavoro, e quindi è naturale aspettarsi che i nostri figli sceglieranno mestieri che ancora non esistono. Per fare un esempio banale, dieci anni fa chi avrebbe puntato ad una carriera nei social media tipo Facebook o Twitter? A tutto ciò adesso si aggiungono i robot che portano via i posti agli esseri umani, e la preoccupazione diventa panico.
Cambiare l’istruzione
Per ritrovare la serenità David Tuffley, specialista di Applied ethics and socio-technical Studies alla Griffith University, ha offerto qualche consiglio sul «Washington Post». Come aveva suggerito la stessa Davidson, per i più giovani la chiave è cambiare l’istruzione. L’approccio seguito finora non regge più, non solo perché bisogna introdurre nelle classi la tecnologia e il digitale. E’ necessario cambiare il modo di affrontare i problemi e risolverli, puntare sul lavoro di gruppo, sulla capacità di pensare fuori dagli schemi. L’abilità di ragionare con l’efficacia di un laser, mirando al cuore pratico delle questioni per realizzare risultati concreti, sarà fondamentale. Stesso discorso per la capacità di gestire i nuovi media e l’informazione, sempre più abbondante e quindi sempre più difficile da selezionare e usare, nel mare dei big data a nostra disposizione. Decisiva anche la predisposizione a costruire e lavorare in ambienti virtuali, perché il luogo fisico dove si svolge il lavoro somiglierà sempre meno a quello a cui ci siamo abituati nell’ultimo secolo.
Molti mestieri che facciamo oggi resteranno, dall’ingegnere all’avvocato, dal medico al programmatore, ma il modo di farli cambierà al punto di escludere alcuni lavoratori ed esaltarne altri. Non basterà più la laurea, in sostanza, ma diventerà decisiva la capacità di usare e trasmettere le conoscenze possedute.
Multidisciplinarietà
La realtà però è che se il 65 per cento dei lavori dei prossimi dieci anni non è stato ancora inventato, non sappiamo di cosa stiamo parlando. Possiamo provare ad immaginarli, ma la realtà finirà sempre per battere la nostra limitata fantasia. L’unico rimedio logico quindi è prepararsi ad adeguarsi, essere malleabili e pronti a cogliere le occasioni che ancora non possiamo neppure intravedere. A questo scopo la scuola deve offrire gli strumenti più ampi possibili, e puntare sulla multidisciplinarietà, in modo da stimolare la creatività dei ragazzi, aiutarli a capire in quale direzione vogliono andare, e garantire loro la capacità seguire diversi percorsi. Ci sarà tempo, poi, per specializzarsi nel settore scelto, una volta scoperto che esiste, ci piace, e ci vuole. Sono consigli ancora vaghi, certo, però rendono l’idea. Del resto stiamo parlando di una realtà che ancora non c’è, ma arriverà e ci stupirà.
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