Il giorno dopo si dovrebbe riflettere con più calma. Non sappiamo se questo stia avvenendo all’interno dei governi del continente, di certo non avviene sui media mainstream.
La notizia è nota. L’Eurogruppo ha presentato ieri sera al governo greco un autentico ultimatum: o accettate di proseguire nel “programma di salvataggio”, comprensivo di tutte le “riforme strutturali” che avevamo fatto accettare al governo Samaras (il Memorandum), oppure la discussione finisce qui. Come ha spiegato il Commissario all’economia, il francese Pierre Moscovici, “Questo è un ‘piano A’. Non c’è un ‘piano B'”.
L’accettazione piena di questo ultimatum è la condizione posta per convocare una nuova riunione dell’Eurogruppo, venerdì 20 febbraio. In quel caso si potranno trovare tutte le “formule lessicali” necessarie ad addolcire la pillola, prorogare le scadenze sugli impegni, concedere nuovi “aiuti” ad Atene; ovvero erogare quella liquidità che può consentire di pagare stipendi e pensioni. Tra le delizie dei trattati europei, infatti, c’è anche la perdita della capacità dei singoli stati di battere moneta. Atene si ritroverebbe dunque nella posizioni di un qualsiasi privato cittadino costretto a fare il giro delle banche implorando un prestito (ma chi ne farebbe mai, o a quali tassi di interessi, a un “protestato”?) oppure a violare apertamente i trattati stampando autonomamente euro al di fuori delle quantità indicate dalla Bce.
Un rapido calcolo dei soliti “esperti” ha quantificato in quasi 60 miliardi di euro il costo di un nuovo “salvataggio”. E suona quasi ridicola la preoccupazione con cui il numero viene scritto nei titoli; specie se si pensa al fatto che la Bce sta per immettere sui mercati la stessa cifra a cadenza mensile e per diciotto mesi consecutivi. Ma quelli della Bce vanno alle banche, mentre quelli ad Atene sarebbero vincolati al programma politico di Syriza e alle necessità “umanitarie” del popolo greco. Non c’è partita: solo la seconda spesa è da considerarsi eccessiva.
Diciamo subito che non c’è alcuna ragione economica a supporto dell’atteggiamento dell’Eurogruppo. Tutti sono consapevoli che Atene non potrà mai ripagare il debito creato da Karamanlis-Papandreou-Samaras e ingigantito dal “salvataggio” messo in campo dalla Troika (basta dare una scorsa all’intervento di Vincenzo Visco, pubblicato oggi su IlSole24Ore, che più sotto riportiamo).
Il problema è puramente politico e riguarda la costruzione dell’Unione Europea. Ogni apertura ad Atene implicherebbe analoghe richieste da parte di quasi tutti gli stati dell’Unione, fin qui intimiditi a colpi di prescrizioni Ue e tagllio del rating. Sarebbe la fine di molti tra i trattati che costituiscono, per ora, l’unica architettura istituzionale dell’Unione; ne discenderebbe la necessità di ricontrattarli, prevedendo molte più variabili di quante non ne siano oggi comprese. Il tutto in piena crisi economica, quando gli squali della finanza globale si gettano con avidità sul corpo del soggetto in un certo momento ritenuto debole. E l’Unione Europea impegnata nel ridiscutere faticosamente – e molto conflittualmente – i trattati fondamentali, sarebbe certamente un obiettivo appetitoso.
Quindi, no a qualsiasi richiesta greca che possa suonare come una “riforma” delle regole fondamentali. E chissenefrega – pensano a Berlino e Bruxelles – se quelle regole non sono in grado di funzionare, se non hanno retto alla prova della crisi e se proprio la Grecia – torturata come una cavia da laboratorio in cinque anni di governo diretto della Troika (“waterboarding fiscale”, lo ha chiamato ancora ieri il ministro delle finanze Yanis Varoufakis) – sta lì a dimostrare le conseguenze pratiche di una gestione folle.
Una scelta basata sulla forza: diciotto paesi dell’Unione contro la derelitta Ellade, che economicamente non conta quasi nullla.
Ma è una scelta anche intelligente?
Quando si sentono ultimatum provenire da Berlino, inevitabilmente, si sente odore di blitzkrieg, di “guerra lampo”, annichilimento rapido del nemico e poche perdite per l’aggressore. Non è mai andata come i generali prussiani avevano messo in preventivo, come se una straordinaria capacità di concentrare energie e abilità tattiche fosse costantemente accecata da una ottusità strategica innata. E indegna di una classe dirigente che pure avrebbe dovuto trarre un qualche insegnamento della sua straordinaria scuola filosofica.
E’ possibile che Tsipras, Varoufakis e gli altri membri del governo ellenico stiano in queste ore meditando su una mossa che di fatto significherebbe cedimento totale, anche se condita in salsa “mediatoria”. In fondo, i sondaggi svolti nelle ore precedenti la riunione dell’Eurogruppo, rilevavano che quasi il 68% degli elettori greci voleva un “buon compromesso” con i partner europei, mentre un robusto 30% (comunque meno della metà) sperava in un ritorno alla dracma. Così come l’81% vorrebbe rimanere nell’eurozona, l’80% giudicava “positive” le prime mosse del governo Tsipras e il 55% lo giudicava al di sopra delle proprie aspettative. Indicazioni altamente contraddittorie, come si vede, da cui è difficile trarre conclusioni “populisticamente” univoche.
Ma è possibile anche che si stiano prendendo altre decisioni. La situazione economica del paese è tale che “proseguire” sulla starda indicata dalla Troika è semplicemente un suicidio. E in fondo ci sono tre “piccoli” paesi come Russia, Cina e Stati Uniti che si sono fatti avanti proponendosi – in modi decisamente diversi tra loro – come sponde, sponsor, prestatori. Al pari del mettersi a stampare autonomamente euro, una qualsiasi apertura ateniese verso uno o tutti e tre questi interlocutori sarebbe un boomerang spaventoso per l’Unione Europea vista ieri all’Eurogruppo. Se si può cercare la salvezza rivolgendosi ad altri, infatti, che senso ha star dentro a una comunità capace soltanto di strangolare i propri componenti più fragili?
Inutile mettersi a fantasticare, certo. Ma qui si vede chiaramente il montare di una tragedia di dimensioni continentali. Quindi globali. Da un lato una comunità mal concepita e peggio costruita, asservita fin dalla fondazione agli interessi del capitale finanziario e delle multinazionali produttive (con quelle tedesche ovviamente in prima fila, per questioni di “peso specifico”), incapace di rimettersi in discussione anche di fronte all’evidenza, al dunque capace di stracciare l’apparenza dell'”insieme comunitario” per mettere in scena il protagonismo dei paesi-guida (è accaduto con il vertice di Minsk sull’Ucraina, dove sono andati Merkel e Hollande, mica la “ministra degli esteri” della Ue, tal Federica Mogherini).
Dall’altra un paese piccolissimo. Che però non ha più molto da perdere.
Comunque vada, insomma, l’Unione Europea ne uscirà a pezzi. Anche se magari vincerà questa battaglia. Eliminare praticamente dalle opzioni possibili quella della “riformabilità” – eliminare i “piani B” – è una decisione che nessun giocatore di scacchi, e tantomeno uno stratega di valore, prenderebbe mai. Ma la Ue l’ha fatto.
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L’articolo di Vincenzo Visco, ex ministro del Tesoro, su IlSole24Ore:
Le colpe della Germania
di Vincenzo Visco
Il conflitto tra debitori e creditori segna l’intera storia della umanità fin dai tempi più antichi. Esso tende a coincidere o a sovrapporsi a quello tra poveri e ricchi, tra sfruttati e sfruttatori, tra vinti e vincitori.
La condizione di debitore insolvente poteva comportare oltre alla confisca dei beni, la vendita di moglie e figli, e la messa in schiavitù. Per oltre 500 anni i debitori nel Regno Unito potevano essere condannati alla prigione. È evidente quindi che gli interessi dei creditori sono stati storicamente ben rappresentati.
I debitori dal canto loro hanno sempre aspirato alla cancellazione o all’alleggerimento dei loro debiti sostenuti spesso (fin dai tempi di Roma o di Atene) da politici “democratici” o populisti in cerca di consenso. Da sempre le principali religioni sono schierate a favore dei debitori e contro l’”usura”, cioè il prestito con interesse: «rimetti a noi i nostri debiti». I testi religiosi (Bibbia) prevedevano la ricorrenza di giubilei per il debito che dovevano verificarsi ogni 7 anni. La condizione di debitore ha comportato lotte, rivolte, e anche provocato guerre. Le esose condizioni imposte a Versailles alla Germania furono tra le cause che determinarono l’ascesa al potere di Hitler e la II guerra mondiale. Al contrario la cancellazione del 50% dei debiti di guerra tedeschi nel 1953 da parte di ben 21 paesi (di cui 14 europei) consentì il successivo formidabile sviluppo economico della Germania. L’accordo prevedeva anche la rinegoziazione del patto in caso di riunificazione delle due Germanie, ma Kohl riuscì ad ottenere un altro condono. La più recente campagna a favore della cancellazione dei debiti fu quella lanciata in occasione del Giubileo del 2000 a favore dei Paesi in via di sviluppo.
In sostanza la gestione di situazioni di alto debito appare particolarmente difficile anche perché non è agevole separare e ponderare le ragioni dei creditori e dei debitori; essa comunque richiederebbe rispetto, equilibrio e lungimiranza che non sembra vengano esercitati nel dibattito in corso sui debiti europei. Infatti il problema non riguarda solo la Grecia ma l’intera zona euro, Germania inclusa.
Il rapporto tra creditori e debitori è asimmetrico a favore dei primi, anche se in apparenza la responsabilità di un contratto di credito dovrebbe coinvolgere in modo paritario ambedue le parti. Ma di solito è il debitore che viene considerato, e si sente, colpevole e anche indifeso.
In verità qui si confrontano due diversi principi etici: il primo è quello in base al quale «i debiti vanno pagati e i crediti ottenuti rimborsati»; l’altro riguarda il rifiuto di vessare economicamente, perseguitare, umiliare chi si trova in condizione di bisogno o di disperazione, indipendentemente dalle sue responsabilità. Quale dei due imperativi etici debbono oggi prevalere in Europa è compito della politica dirimere.
La contrapposizione manichea tra paesi virtuosi e lassisti è tuttavia priva di senso. Oggi in Europa nessuno è innocente. Non lo è la Grecia, ma non lo è nemmeno la Germania. Tutti hanno violato la lettera e soprattutto lo spirito del trattato di Maastricht delle sue condizioni e della sua ispirazione, e la vigilanza della Commissione è stata carente, male indirizzata e poco consapevole.
Se poi si guarda a come sono stati gestiti i cosiddetti “aiuti” alla Grecia c’è di che vergognarsi: dei 230-240 miliardi investiti dall’Unione solo il 25% circa è andato a beneficio diretto o indiretto del popolo greco. Il resto è servito ad evitare che le banche tedesche e francesi che avevano generosamente finanziato la Grecia subissero delle perdite, ed assicurare che Fmi, Bce e banche centrali di Francia e Germania ottenessero il rimborso pieno dei prestiti ottenuti. In questa operazione si è perfino ottenuto che Paesi come l’Italia e la Spagna che all’inizio della crisi greca avevano una esposizione molto modesta nei confronti del debito pubblico del Paese pari rispettivamente a 1,7 e a 2miliardi, oggi si trovino esposti nei confronti della Grecia di 36 e 26 miliardi! I soldi dei contribuenti di Spagna e Italia sono stati di fatto utilizzati a favore di chi improvvidamente aveva finanziato lo sviluppo drogato dell’economia greca. (evidenziazione nostra, ndr)
Di questa situazione bisogna assumere consapevolezza piena. Nessuno è innocente, lo ripeto, tutti sono colpevoli, creditori e debitori. È quindi necessaria una iniziativa politica di alto livello in grado di fare il punto sulla situazione attuale, verificare gli errori compiuti, porvi rimedio e rilanciare lo sviluppo, superare e seppellire i rancori che intossicano i rapporti tra i popoli europei. Perché ciò possa avvenire occorre superare l’ottuso nazionalismo che oggi caratterizza gran parte dei governi europei, e che rifletta pregiudizi vecchi e nuovi.
Sarebbe altresì un errore cercare solo una soluzione valida per la Grecia, perché, essa sì, potrebbe metter in moto un effetto domino, mentre è necessario ridisegnare la prospettiva e le strategie europee. E da questo punto la questione del debito pubblico europeo diventa centrale.
Occorre innanzitutto riconoscere che gli alti debiti attuali sono l’effetto della crisi (recessione, fallimento delle banche) e non la sua causa e che essi vanno ridotti mediante un intervento congiunto dei Paesi. Le proposte in proposito esistono. Vi è quella che chi scrive avanzò oltre 4 anni fa e che ha il pregio di essere molto simile a quella prospettata pressochè contestualmente, anche dai “saggi” che fungono da consulenti al governo tedesco. Ve ne sono altre. Quello che non si può fare è continuare ad aspettare. Si approfitti della crisi greca non per fare concessioni ai greci, ma per rilanciare il progetto europeo. Sono necessarie iniziativa politica e autonomia di giudizio e di proposta. E va superato l’attuale perbenismo europeista che paralizza l’autonoma iniziativa degli Stati appiattendo i governi sugli interessi tedeschi che non sono oggi quelli dell’intera Europa.
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