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Il fascino discreto della crisi economica. Intervista a Simon Mohun

Continua il ciclo di interviste ad economiste ed economisti eterodosse/i a cura degli attivisti della campagna “Noi Restiamo”. Siamo ormai arrivati alla 7a puntata. È la volta di un economista inglese, Simon Mohun. Mohun è professore emerito di economia politica presso l’Università Queen Mary di Londra. Di tradizione marxista, influenzato dal lavoro di Duncan Foley, Dumenil e Levy, Mohun ha concentrato la sua ricerca sulla misura, la descrizione e la spiegazione dei trend del profitto aggregato nelle economie capitaliste sviluppate. Ha pubblicato su varie riviste accademiche, fra cui il Cambridge Journal of Economics e Metroeconomica. Ha curato il libro “Debates in value theory” (1994, Macmillan).

L’emergere della crisi ha confermato la visione di alcuni economisti eterodossi secondo la quale il capitalismo tende strutturalmente ad entrare in crisi. Tuttavia, le visioni sulle cause del disastro attuale divergono. Una posizione piuttosto diffusa (appoggiata ad esempio dai teorici della rivista “Monthly Review”) è quella che attribuisce la crisi al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata è stata quindi necessaria un’enorme estensione del credito e lo scoppio della bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista americano Andrew Kliman, ritengono invece che le cause della crisi non si possano trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile tramite la caduta del saggio tendenziale di profitto, che è una visione tutta improntata sulla produzione. Lei cosa ne pensa?

Io credo che la tesi marxista della crisi richieda un considerevole sviluppo. Primo, non credo che sia teoricamente possibile che il tasso di profitto debba inevitabilmente cadere. Il risultato teorico della sua caduta richiede un considerevole numero di ipotesi. In particolare si basa su una spiegazione particolare del progresso tecnico, interpretato come utilizzo dei mezzi di produzione e risparmio del lavoro. Questa interpretazione del progresso tecnico è indubbiamente tipica dello sviluppo del capitalismo, ma non sempre e dovunque. Ci sono stati periodi (esempio negli anni ’80) nei quali il progresso tecnico era differente. In termini più marxisti, la risposta alla domanda “La composizione organica del capitale sale?” è “generalmente si, ma non sempre”. In simil modo, l’aumento della composizione organica non necessariamente si traduce in un aumento della composizioe del valore, poiché movimenti relativi dei prezzi possono essere molto importanti. Ed infine, non c’è nessuna base per presumere che l’aumento del plus-valore non possa aumentare tanto velocemente o più velocemente della composizione del capitale. In secondo luogo, ci sono delle difficoltà considerevoli nell’identificare cosa sia il saggio di profitto. Questo ha parzialmente a che fare con la misura del capitale fisso (costo storico o costi di rimpiazzo, includendo o escludendo il deprezzamento, includendo od escludendo gli inventari?). Ed ha anche parzialmente a che fare con la scelta di quali settore includere (settore delle imprese? Settore delle imprese non finanzario? E riguardo il reddito da partecipazione o da proprietà? Perchè non includere tutta l’economia?). In terzo luogo, non è chiaro cosa fare, semmai, con i problemi generati dal lavoro produttivo ed improduttivo. In quarto luogo, non è ovvio come una caduta media del saggio di profitto si traduca in una caduta dell’investimento. Il saggio di profitto potrebbe cadere dal 10% al tempo t-1 al 5% al tempo t, ma perché un capitalista dovrebbe non investire e perdere così il 5 percento di profitto? Tutte queste difficoltà sono ben conosciute e sono state spesso provate.

E’ giusto concentrarsi sul saggio di profitto perchè questo genera attenzione sulla relazione fra crescita reale dei salari e crescita della produttività, fra crescita della produttività e crescita “dell’intensità del capitale”*, e sulle proporzioni degli indici di prezzi. Ma è sbagliato pensare che ci siano delle tendenze in qualsivoglia direzione. Dal 1918 ad oggi ci sono state due crisi spettacolari, una cominciata nel 1927 e l’altra nel 2007. Entrambe sono accadute dopo aumenti ciclici del saggio di profitto, seguiti da piccole ricadute. Questo solleva due ulteriori problemi. Il primo è che il saggio di profitto non sembra essere importante per spiegare queste crisi, che erano di base gigantesche crisi finanziarie. Questo mi suggerisce che si necessario assai più lavoro per capire la finanza e le operazioni del sistema finanziaro da una prospettiva marxista. Il secondo problema è che entrambe queste crisi sono accadute in seguito a spostamenti sostanziali della distribuzione del reddito dal lavoro verso i capitalisti. E’ dunque essenziale capire come la crescita della disuguaglianza possa essere integrata ina una spiegazione coerente della crisi. Concentrarsi sul saggio di profitto non può farlo, ed il merito della Monthly Review School è che almeno riconoscono che questo è un problema.  

 

Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appare in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. É quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato?

Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea?

I trend globali di crescita mi paiono piuttosto deboli. La risposta neoliberale alla crisi è stata, con l’austerità, di provare a ristrutturare i rapporti tra lo stato e la classe lavoratrice, in modo particolare per quanto riguarda occupazione e welfare. In assenza di alcuna opposizione, ciò probabilmente continuerà.

L’Unione Europea è un’istituzione di classe in cui le relazioni tra le varie classi sfruttatrici nazionali non sono ben integrate. Essa si presenta come un’unione monetaria con istituzioni monetarie comuni non sufficientemente potenti, il che a sua volta non può funzionare senza un certo livello di unione fiscale sovranazionale che al momento appare impossibile. Questo non è privo di legame con il grande deficit democratico che affligge l’UE. Quindi, a mio avviso, ci sono gravi contraddizioni intrinseche alla struttura dell’UE.

Tuttavia c’è un problema aggiuntivo, e cioè che la Germania sta ricoprendo una posizione di leadership in una maniera che appare piuttosto controproducente per gli interessi di lungo periodo del capitale tedesco. Politiche che costringono Francia e Spagna a uscire dall’euro non sembrano ragionevoli per il capitale tedesco, ed è difficile credere che questo possa accadere senza una grave crisi. Questo non si comprende per mezzo di un approccio funzionalista alla storia e alla politica (secondo cui ciò che avviene è sempe nell’interesse del capitale), e ci ricorda il potere della contingenza negli eventi di tutti i giorni.

 

In occidente la dottrina economica neoclassica è a livello accademico da più di 30 anni a questa parte completamente dominante. In maniera analoga, anche le visioni sulla politica economica e sulla crisi hanno una matrice ideologica comune. Come deve posizionarsi un teorico eterodosso oggi? Ovvero ha senso una guerra di posizione all’interno dell’accademia, ha senso intervenire sulle modalità di gestione della crisi? Ha senso partecipare al dibattito istituzionale su ciò che andrebbe fatto, o è meglio lavorare in altri luoghi e spazi? In sostanza, il capitalismo è riformabile e quindi bisogna parteciparne alla gestione, magari in una direzione più “egualitaria”, oppure no?

Abbiamo un handicap politico, perchè non abbiamo una buona ricostruzione (sia essa teorica o storica) di come potrebbe essere significativamente pianificata e organizzata una società socialista, e non basta sostenere che le strutture emergeranno dalla lotta per creare quella società. Di conseguenza, questo punto richiede attenzione.

Per di più, se l’approccio eterodosso vuole sopravvivere, deve almeno mostrare di avere un’agenda di ricerca progressista, in particolare riguardo a classe, finanza e disuguaglianza. Allo stesso tempo dovrebbe contribuire, con materiali provenienti da questa ricerca, al movimento progressista.

Ma il neoliberalismo ha fortemente indebolito le strutture istituzionali portanti del movimento operaio (in particolare i sindacati), così che non possiamo essere utopisti riguardo alle possibilità immediate. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato in una politica che persegue riforme attraverso un qualche controllo socialdemocratico su finanza e disuguaglianza, purchè essa si combini con il riconoscimento del fatto che la socialdemocrazia non è l’obiettivo finale.

 

Dal tuo punto di vista, dove vedi in questo momento i movimenti e/o le contraddizioni più interessanti nel capitalismo, con un potenziale di rottura?

Le risposte politiche in Grecia e Spagna sono attualmente segnali incoraggianti nella politica pratica. Altrimenti, le questioni per me più interessanti riguardano i modi in cui il neoliberalismo è legato sia alla finanza che alla crescita delle disuguaglianze, e incontra quindi considerevoli difficoltà nel regolare entrambe. La continuazione disfunzionale dei trend attuali pare destinata a creare considerevoli difficoltà al neoliberalismo in futuro, e quindi opportunità per un cambiamento significativo. Ma queste dipendono anche da un movimento progressista di opposizione molto più forte di quello di oggi.

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