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Visco ricorda l’Iri, ma spera nel piano Juncker

Come passa il tempo… E come insegna poco a chi proprio non vuol capire; oppure non riesce a uscire dal ruolo assegnato, dalle viscosità sistemiche, dalle visioni dominanti anche se deformanti e, alla fin fine, fallimentari.

Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, uno dei più attenti osservatori della realtà economica italiana, nonché della sua storia, ha parlato stamattina davanti ai convegnisti riuniti per ragionare sulla “storia dell’Iri e la grande impresa oggi”. Sarebbe stata una buona occasione per mettere nella giusta luce i successi del “keynesismo” – prima fascista, poi democristiano – nel “salvare” le banche e avviare quegli investimenti pubblici nell’economia reale che hanno fatto la storia industriale di questo paese, nell’era dell’”economia mista” (quasi più pubblica che privata, nella grande impresa) durata fino alla fine degli anni ’80.

Per chi non lo sa, l’Iri fu fondata da Alberto Beneduce, ex socialista come Mussolini (al punto da chiamare una figlia, prima dell’adesione al fascismo, addirittura Idea Socialista, poi sposata con Enrico Cuccia…). Inizialmente si mise a sostituire le banche nel finanziamento diretto alle imprese, mentre un secondo ramo rilevava le industrie che andavano chiudendo in seguito alla crisi del 1929. Nel dopoguerra divenne l’architrave dello sviluppo industriale italiano, visto che “i privati” si limitavano a Fat, Pirelli, Ferrero e poco altro. Decadde lentamente per “merito” dei boiardi democristiani e socialisti, sempre meno autonomi dai due partiti guida dei governi dal ’60 in poi, fino ad accumulare debiti più che profitti. Poi arrivò Maaastricht, la ventata “privatizzatrice”, il centrosinistra e Romano Prodi che la chiuse.

Da allora il degrado della capacità produttiva nostrana non ha più conosciuto sosta. Basta ricordare alcune delle aziende allora “controllate dallo Stato” e finite a spezzatino, come piace fare ai “capitalisti senza capitali” di questo paese: Telecom, Ilva (ex Italsider), Alitalia, Motta, Alfa Romeo, Cirio, ecc; oltre naturalmente a Fincantieri, Finmeccanica, Enel, Eni, ecc.

E invece no, nessun parallelo. Anzi, soltanto uno: quello relativo al salvataggio delle banche. Ovvero l’unico comparto dove ogni Stato è incoraggiato, anche dall’Unione Europea, a sversare soldi senza limiti pur di mantenere in vista istituti di credito che meriterebbero soltanto il fallimento.

Visco ha infatti auspicato un intervento dello Stato per “alleggerire le sofferenze delle banche”, ricorrendo al solito meccanismo: una “bad bank” di sistema, destinata a raccogliere tutte le passività, i crediti inesigibili, buona parte dei dipendenti, in attesa della procedura di liquidazione. Lasciando così le banche “sgravate” da questi fardelli e libere di volare sui mercati verso altre operazioni speculative – anche qui: le uniche che la Sorveglianza bancaria europea considera sempre tra gli “attivi”, anziché fra i “rischi”, come avviene per crediti a imprese e famiglie – e quindi nuove sofferenze…

Una lacrima di commozione è stata spesa per tutte queste banche che «hanno resistito alla prova difficilissima di una fase recessiva durata oltre sei anni». Ma «la crisi lascia però un’eredità molto pesante in termini di crediti inesigibili da imprese uscite dal mercato o in gravi difficoltà, che appesantiscono i bilanci e limitano la capacità di erogare nuovi finanziamenti a imprese sane e vitali». Inevitabile dunque l’invocazione di un “pagatore pubblico di ultima istanza” (che saccheggerà come sempre i nostri redditi), ovvero «un intervento diretto dello Stato che, nel rispetto della disciplina europea sulla concorrenza, favorisca lo sviluppo di un mercato secondario» (leggi: prodotti derivati) dei crediti deteriorati delle banche, perché «potrebbe contribuire a liberare risorse di cui beneficerebbero in primo luogo le imprese».

Il contesto macroecomico, spiega Visco, è momentaneamente favorevole, una “finestra” di sereno creata dal quantitative easing messo in atto dalla Bce. Ma non durerà a lungo (un anno e mezzo, ma gli effetti più vistosi sui mercati termineranno molto prima). Quindi il punto fermo resta l’aumento degli investimenti, sia pubblici che privati. Non ci può essere nessuna crescita, se nessuno investe.

Ma come si fa, se l’Unione Europea considera prioritario l’aggiustamento dei conti statali rispetto agli investimenti pubblici? E se “i privati” èpreferiscono giocare in borsa, piuttosto che attendere i tempi lunghi di ritorno al profitto dopo un’investimento nell’economia reale?

La speranza, soltanto quella, è il piano Juncker, che «può dare un contributo di rilievo, favorendo la sincronia degli sforzi a livello europeo e fornendo un riferimento di medio periodo alle aspettative delle imprese». Il problema – non menzionato da Visco – che i soldi messi direttamente dall’Unione Europea sono una miseria (una quindicina di miliardi, inizialmente), nella speranza di avviare un effetto leva “attrattivo” per gli investimenti privati.

Il resto è contorno (battere la corruzione, sostenere le imprese “ancora in affanno”, ecc). Del resto, nell’ordo-liberismo Ue, un’altra Iri non si può neanche sognare. Verboten!

 

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