Il re è nudo, come sempre è stato. Solo i cortigiani e gli imbecilli potevano cantarne la bellezza delle vesti e il portamento. Compito facile, per i cortigiani, visto il monopolio pressoché assoluto sul mondo dei media, a partire ovviamente da quelli più influenti.
Poi, improvvisamente, il numero due mondiale dell’auto – Volkswagen – si ritrova senza uno straccio in grado di coprirne le vergogne.
Ora tutti a ricordarsi dello scarto consistente tra le emissioni dichiarate da tutte le case automobilistiche e la realtà delle prestazioni su strada, nel normale uso di tutti i giorni, ma con uno sforzo di “contestualizzazione”, se non addirittura di “comprensione”.
Alcuni giornali elencano almeno dieci trucchi messi in opera al momento dei test per abbassare sia il livello dei consumi (l’unico a cui guarda il consumatore-massa) che quello delle emissioni, per stare dentro i parametri fissati dalle normative dei singoli governi mondiali (dall’Unione Europea, nel caso che ci riguarda). Tra i “trucchi” già era nota la diversa mappatura delle centraline elettroniche al momento dei test, ma nessuno si era curato di approfondire.
Il perché è facilissmo da capire. In Europa le società “certificate” che effettuano i test ufficiali di controllo vengono finanziate dai produttori delle automobili, e i test si fanno direttamente nei laboratori delle varie case. Come volete che esca un risultato molto differente tra quanto dichiarato e quanto “rilevato”?
Proprio le direttive europee per applicare almeno in parte il Protocollo di Kyoto hanno messo in moto una curiosa dinamica, decisamente indicativa. Per scoprirla ci sono voluti test indipendenti, ma necessariamente condotti con mezzi tecnologici meno potenti di quelli a disposizione dell’Epa statunitense, realizzati dalla European federation for Transport and Environment (Efte), ente creato da un quarto di secolo da oltre 50 organizzazioni ambientaliste europee. Un ente mai ascoltato, in passato, ma che ora può spiegare come, dal 2001 ad oggi, la differenza tra le emissioni dichiarate dai costruttori e quelle registrate dall’Efte sia passato da un già discreto 8% a un inqueitante 30%. Che però potrebbe diventare, continuando su questa strada, addirittura il 50%.
In pratica, le case automobilistiche dicono di star diminuendo in modo consistente le emissioni, ma non lo fanno perché questo comporta costi da loro definiti eccessivi (si veda la dichiarazione di Sergio Marchionne, in Volkswagen, la regola del più forte).
Stiamo parlando del principale settore industriale del mondo, con una capacità produttiva superiore ai 100 milioni di unità l’anno e 12 milioni di dipendenti in totale, anche se le vendite non superano di molto i 60 milioni di pezzi annui. I numeri indicano una condizione precisa: c’è capacità produttiva in enorme sovrappiù, quindi c’è concorrenza feroce. Per conquistare quote di mercato anche marginali – come ha fatto Volkswagen sul mercato Usa – si deve e si può ricorrere a qualsiasi mezzo. Anche la frode, come si è visto.
Il problema è che un motore “popolare” come il turbodiesel 2.000 Tdi non poteva essere “truccato” solo per la quota relativa alle esportazioni in America (poco più di 400.000 pezzi l’anno). Lo scarto tra emissioni al momento del test e quelle effettive è infatti troppo ampio: tra le 10 e le 40 volte. Non è insomma pensabile né fattibile, in una pianificazione industriale di massa, che un motore venga taroccato per (relativamente) piccole e giri invece “pulito” sul mercato maggioritario.
E infatti una nora ufficiale Vw ha dovuto ammettere che lo stesso software truccato è montato nelle centraline elettroniche di tutti gli 11 milioni di motori di quel tipo. Worldwide, in giro per il mondo intero, ma soprattutto in Europa. Né si può pensare che siano invece migliori – sarebbe un controsenso industriale – i motori diesel montati sulle controllate Vw “di massa” (Audi, Seat, Skoda).
Il governo tedesco ha ordinato un’inchiesta, ma dovrebbe cominciare ad indagare se stesso. Il quotidiano Die Welt ha infatti ritrovato una risposta ufficiale del ministro dei Trasporti a una interrogazione parlamentare, nello scorso luglio, in cui si spiegava che “è in corso il lavoro sull’ulteriore sviluppo del quadro normativo comunitario” per “ridurre le reali emissioni! Delle automobili. Non veniva nominata alcuna azienda, e men che meno l’intoccabile Vw, ma la conclusione appare obbligata: il governo di Angela Merkel sapeva.
E sapeva che la principale industria tedesca stava frodando sul mercato negli stessi giorni in cui stringeva il cappio al collo della Grecia (e di tutti gli altri paesi più deboli, nell’Unione Europea) in nome del rispetto delle regole.
Il siluro è arrivato dagli Stati Uniti. Ben pochi altri soggetti internazionali avrebbero potuto farlo con la certezza di arrivare a segno. Ma è un missile che colpisce tutta la struttura dell’Unione Europea indebolendo in misura ancora incalcolabile la credibilità del paese-guida.
Ma è anche un missile che può diventare un boomerang.
Sovrapproduzione e concorrenza esasperata valgono per tutti i produttori globali. La prudenza mostrata dal giornale di casa Fiat-Fca (La Stampa), o anche dal Corriere della Sera, è qualcosa più di un indizio. In fondo, fino all’altroieri, tutti gli esperti del settore auto riconoscevano a Vw un livello di eccellenza anche nel campo della riduzione delle emissioni, oltre che nelle componenti più tradizionalmente meccaniche. Appare insomma estremamente improbabile che gli altri produttori di rilievo (General Motor, Fiat-Chrysler, Toyota, Nissan-Renault, Ford, Bmw, Mercedes, Psa-Citroen-Peugeot, ecc) abbiano raggiunto, in tema di riduzione delle emissioni, risultati 20 o 30 volte superiori a quelli di Vw.
Il meccanismo della concorrenza può dunque provocare una corsa allo sputtanamento reciproco da cui sarebbe difficilissimo uscire con i protagonisti tutti ancora in piedi. E, sinceramente, non ci sembra che in regime capitalistico possa partire una riconversione industriale globale concertata mirante a portare le emissioni inquinanti a livelli compatibili con l’obiettivo della sostenibilità ambientale.
Non sembra dunque casuale che il giornale di Confindustria – IlSole24Ore – provi immediatamente a dettare la nuova linea, mettendo fine a un quarto di secolo di retorica “eco” nella comunicazione industriale: I limiti sono inutili se l’industria non può raggiungerli. Una vera e propria inversione a U che restituisce il senso pieno della logica del capitale: la produzione e il profitto vengono prima di tutto, e se per questo il pianeta diventerà un luogo invivibile – nelle relazioni umane come nell’ecosistema – la risposta è semplicissima: chissenefrega.
Volkswagen, dunque, appare come il masso che mette in moto una valanga sistemica più grande. E ci sembra decisamente significativo che la merce-pivot dello sviluppo capitalistico del ‘900 – Das Auto – sia anche il primo vaso di Pandora a perdere il coperchio.
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