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Germania sull’orlo di una crisi. Anche di nervi

Il crollo di borsa si è fermato, ma ora è il momento delle perquisizioni di polizia. Per Volkswagen i guai sono appena all’inizio, così come per il “modello tedesco”, che fa da riferimento per strutturare i diktat dell’Unione eEuropea e della Troika.

La Procura di Braunschweig, ieri, ha fatto eseuire un numero imprecisato di perquisizioni sia a Wolfsburg che in altre sedi del gruppo, fin nelle case di dirigenti, tecnici e ingegneri. Del resto l’inchiesta è partita dalla scoperta di un software per truccare i dati sulle emissioni di gas nocivi, quindi ha risvolti penali, oltre che civili, commercialii e fiscali.

Come si usa dire in queste situazioni, è stato sequestrato materiale informatico, nonché numerosi documenti «che potrebbero rivelare le azioni e le identità dei dipendenti coinvolti nella manipolazione del software dei motori diesel». Si tratta infatti di capire quali dirigenti del gruppo abbiano deciso di effettuare la falsificazione, quali ingegneri hanno messo a punto l’operazione sul piano industriale, ecc. L’unica cosa certa, infatti, è che truccare 11 milioni di automobili «non era opera di pochi ingegneri, ma un vero e proprio sistema». L’amministratore delegato, Winterkorn, che quanto meno ha datto il nulla osta alla più grande truffa commericale della storia, è già stato dimissionato dalla famiglia Porsche, che detiene la maggioranza del pacchetto azionario e l’ha sostituito con un proprio rappresentante, Matthias Müller.

Al contrario di quanto avverrebbe in Italia, i dirigenti Vw stanno offrendo – alemno apparentemente – la “massima collaborazione”. Del resto, sanno benissimo di essere un pilastro insostituibile del sistema industriale e politico tedesco e che, quindi, il governo di frau Merkel dovrà fare l’impossibile per limitare i danni. Comunque colossali.

Anche perché sta venendo fuori che le auto vendute in Europa – 8 milioni – avevano caratteristiche costruttive ancor meno “rassicuranti” rispetto a quelle spedite negli Usa, complice il fatto che qui Vw poteva contare su “verificatori” che lei stessa, insieme alle altre case costruttrici, contribuiva a finanziare.

Grande pubblicità, ovviamente, viene dato all’avvio delle provedure per richiamare in officina tutti e gli undici modelli incriminati. Ma non occorre essere ingegneri per capire che le “modifiche” da apportare saranno inevitabilmente quasi soltanto software, perché è impossibile trasformare nelle normali officine 11 milioni di motori fino a farli funzionare secondo le norme Euro 5. I test statunitnsi, infatti, avevano rilevato che quei motori, al di fuori delle condizioni di test, emettevano gas nocivi da 10 a 40 volte di più del dichiarato. Una proporzione che fa di quei motori degli equivalenti moderni degli autocarri della grande guerra, quindi “incorreggibili” con chiavi e cacciavite.

Le proposte di “correzione” consegnate da Vw alla Kba (la motorizzazione tedesca)sono in effetti quasi soltanto via software. In pratica si limiteranno ad eliminare il “trucco”, permettendo dunque alle centraline elettroniche diasseganre i valori effettivi alle emissioni. Ma questo non renderà quei motori adeguati allo standard Euro 5. Dunque la loro longevità commerciale dovrebbe venir ridotta a una categoria inferiore (Euro 4 o addirittura Euro 3), con ovvia svalutazione del mezzo e danno per i clienti.

Per 3 milioni e mezzo di vetture, ammette la stessa Vw, questa “riparazione” non sarà sufficiente e dunque si renderà necessario un richiamo ben più “invasivo”. Ma se ne parlerà come minimo tra un anno, perché i tempi di lavorazione necessari per rivedere ogni singolo veicolo oscilla tra le 5 e le 10 ore. Di fatto, dividendo 3,5 milioni per i numero di officine autorizzate Vw, “ci vorranno anni”. Se le auto saranno ancora in circolazione…

A pagare, come del resto anticpato dal nuovo amministratore delegato, saranno certamente i lavoratori del gruppo, su cui verrà scaricata buona parte dei costi derivanti dal crollo delle vendite. E subito il ministro dell’economia, nonché vicecancelliere e capo dei “socialdemocratici” tedeschi, Sigmar Gabriel, ha propettato l’utilizzo del «Kurzarbeit» (una sorta di “contratto di solidarietà”, con forte riduzione dell’orario di lavoro e dell salario, compensato in parte con sussidi statali).

Ma non è Volkswagen l’unico problema con cui ha a che fare la Germania. Solo ieri è arrivata una mazzata considerevole sulle prospettive di crescita: le esportazioni, ad agosto, sono crollate del 5,2%, la diminuzione più consistente da gennaio del 2009, quando le esportazioni calarono del 6,9%. Ma quello era il momento peggiore della crisi, a pochi mesi dall’esplosione di Lehmann Brothers.

Si tratta di una mazzata che spaventerebbe chiunque, ma soprattutto quei paesi che hanno adottato un modello industriale export oriented. E la Germania ordoliberista del terzo millennio è esattamente il miglior esempio di economia incentrata sulle esportazioni: salari fermi (anche se a un livello medio superiore a quelli vigenti nella Ue), precarietà crescente non solo a livello giovanile, filiere produttive diffuse soprattutto ai paesi dell’Est e del Sud europeo (vedi la posizione dell’Italia), sbocchi commerciali privilegiati verso Usa, Cina e paesi emergenti.

E’ proprio qui è il problema strutturale del “modello tedesco”. Emergenti e Cina hanno rallentato in modo vistoso, soprattutto i secondi, che fin qui si erano espansi trainati dai prezzi delle materie prime. Che ora stanno sottoterra. Ma anche la Cina, fin qui, era avanzata a passo di carica trainata soprattutto dagli investimenti interni, massicciamente distribuiti verso infrastrutture e impianti industriali. Ovvero i settori in cui l’export germanico aveva sbaragliato ogni concorrenza.

Tengono fin qui i cnsumi interni, ma a nessuno sfugge – di sicuro non ai tedeschi – che i consumi vanno bene finché c’è quasi piena occupazione, e salari decenti. Finché, insomma, c’è un’economia che “tira”. Ma se quest è soprattutto export oriented, ecco che la crisi dei mercati di sbocco si traduce molto rapidamente in difficoltà interne.

Questo era peraltro cosa risaputa già prima dello scandalo Volkswagen. Che non ha soltanto un risvolto – importante, ma tutto somma assorbibile – sul piano del Pil (la domanda di auto Vw è già crollata, e non è prevedibile una sua resurrenzione nell’arco di due-tre anni, concentrata com’era sullo sviluppo delle motorizzazioni diesel). Incide infatti negativamente sull’appetibilità dell’intero made in Germany. Qualsiasi cliente, nel mondo, è ora legittimamente sull’avviso: questa roba che dovrei comprare, rispetta gli standard dichiarati o è un’altra “sòla alla tedesca”?

Ovvio che a soffrire sarà soprattutto il comparto automobilistico, che rappresenta però da solo ben il 7,7% del Pil di Berlino; una quota superiore a quella dell’Italia anni ’60, quando Fiat, Lancia e Alfa Romeo (tre proprietri differenti, a quei tempi) “pompavano” al massimo la produzione.

Ma anche il settore bancari mostra nuovi e inquietanti segnali di fragilità, a cominciare dal colosso principale: Deutsche Bank. Ha annunciato perdite per 6 miliardi, che già non sono pochi. Ma a preoccupare sono soprattutto le cause: multe e contenziosi giudiziari, per scandali ripetuti su diversi fronti e in diversi paesi. Anche in questo ambito, lo slogan “è una tedesca” ha rovesciato il significato in modo pressoché irreversibile.

E bisogna essere davvero ideologici per attribuire questa caduta degli standard germanici al “rapporto tra affari e politica” che caratterizza ancora il “modello tedesco”. Esiste forse un solo paese nel mondo in cui questo rapporto non esista? Anzi, dove non sia l’architrave dell’equilibrio sistemico? Bisogna proprio ricordare la facilità con cui, per esempio, i massimi dirigenti delle multinazionali Usa diventano ministri o addirittura vice-presidenti degli States? Abbiamo già dimenticato i Dick Cheney che passavano più volte nella vita dalla poltrona di chief executive officer della Hulliburton (petrolio, gas, trivellazioni, mercenari, ecc) alla Sala Ovale? E tutti gli altri che hanno fatto e fanno ancora percorsi del tutto simili?

La verità è così evidente che nessuno osa guardarla in faccia: questa crisi, entrata nel nono anno di vita, non è stata affatto risolta né affrontata. Basta vedere come tutti, Fmi compreso, implorano la Federal reserve di non mettere in moto il rialzo dei tassi di ineteresse e semmai, al contrario, di spargere ancora tanto denaro liquido “dagli elicotteri” (come dicono in gergo per idicare i quantitative easing). E non c’è “modello” – né liberista anglosassone, né ordo-liberista teutonico – che riescano a immaginare una possibile via di uscita.

Una crisi così acuta, e con ricadute sul commercio mondiale così forti (e “protezionistiche”) che perfino Federico Rampini si è accorto – con otto annidi ritardo – che “la globalizzazione è finita”.

 

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