Borse in festa, economia al palo. “Houston, abbiamo un problema”, si dovrebbe dire dai vertici delle istituzioni finanziarie globali. Ma solo la Bce dà corpo, tra le righe ingessate lette da Mario Draghi, a preoccupazioni serie per la tenuta del sistema. E solo qualche analista più attento prova a mettere nero su bianco la domanda delle domande: “perché l’inflazione non riparte nonostante anni di iniezioni straordinarie di liquidità da parte delle principali banche centrali?”
I fatti. Ieri la Bce ha confermato a zero (0,05%) il tasso di interesse chiesto per i prestiti alle banche. Non esistevano dubbi che così sarebbe stato, visto che Francoforte è impegnata in uno sforzo straordinario (60 miliardi di euro al mese) di acquisto di titoli (di stato e privati, “roba buona” e “spazzatura derivata”) fino al settembre del 2016 “e anche più in là, se necessario”.
Di più. Il livello di allentamento monetario «dovrà essere riesaminato a dicembre», perché la crescita resta molto più bassa del minimo desiderabile (ovvero meno del 2%, se non altro per tenere il passo con la crescita della popolazione continentale), l’inflazione anche e diversi paesi emergenti mostrano segni di crisi accentuata, a partire dagli esportatori di materie prime.
Parole non equivoche, su questo fronte. «Abbiamo avuto un’ampia discussione sugli strumenti che potremmo usare. Non è stata ancora presa nessuna decisione specifica. La conclusione è che siamo pronti ad agire se necessario e siamo aperti a tutte le opzioni di politica monetaria. In sintesi: non siamo più nell’ottica del “wait and see”, ma del “work and assess” (lavoriamo e valutiamo)».
In pratica Draghi ha annunciato che tra un mese la Bce darà il via a un programma ancora più aggressivo, “stampando” più moneta con metodi ancor meno “convenzionali”, pur di avvicinare i livelli di crescita e inflazione considerati “normali”.
Si fanno ipotesi sugli strumenti utilizzabili, fino ai “tassi negativi”, un vero controsenso in ambiente capitalistico. Equivale infatti al regalare denaro, perché un tasso anche lievemente negativo comporta che la cifra restituita sia sempre inferiore a quella prestata già a livello nominale, a prescindere dunque dalle dinamiche inflazionistiche (comunque vicine allo zero). Va ricordato che oltretutto già ora la Bce remunera negativamente (-0,20%) i depositi delle banche che decidono di lasciare soldi presso di lei, invece di farli circolare.
Una mossa disperata, mai tentata prima, che dà la misura della gravità della situazione agli occhi della Bce (ma non di Bundesbank, che si è lamentata nei giorni scorsi del quantitative easing, colpevole di aver ridotto i profitti delle banche tedesche).
E in effetti se gli acquisti previsti dal programma «procedono senza problemi e hanno un impatto favorevole sulla disponibilità di credito per le famiglie e le imprese», perché l’unico settore economico a trarne vantaggio sono le attività di borsa e non l’economia reale?
«La forza e la persistenza di fattori che stanno oggi rallentando il ritorno dell’inflazione a livelli inferiori ma vicini al 2% nel medio termine richiede un’analisi rigorosa», recita la nota ufficiale dell’istituto di Francoforte, senza però accennare a un’ipotesi di risposta.
E dire che si tratta di un caso da manuale, perché annienta tutta la manualistica su cui vengono formati gli studenti di economia (perlomeno nelle università assoggettate al “pensiero unico” neoliberista, praticamente quasi tutte). Come ricorda Morya Longo, oggi su IlSole24Ore, “o vanno riscritti i libri di economia, oppure c’è qualcosa che sfugge”. Non c’è bisogno di essere marxisti ortodossi per intuire che “qualcosa sfugge” perchè i libri di economia (ossia la teoria economica egemone) impediscono di vederlo.
Longo prende in esame i molti e vari argomenti – congiunturali e strutturali – portati a spiegazione della persistente bassa o nulla inflazione. I “tracolli delle materie prime”, a partire dal petrolio (l’energia entra nella formazione del prezzo di tutte le merci, come il lavoro umano), che abbassano automaticamente i prezzi dei trasporti e anche quelli della produzione. La “congiuntura negativa dei paesi che consumano molta energia”, come la Cina (che comunque viaggia al ritmo del 6,9%). Prende in considerazione anche una sciocchezza sesquipedale buttata lì da un Pier Carlo Padoan in debito di lucidità teorica (“è una questione di aspettative. Non c’è ancora la piena consapevolezza che siamo usciti dalla crisi e, quindi, sotto sotto, nella testa di famiglie e imprese c’è l’idea che il mondo prodotto dalla crisi sia più debole e con una inferiore capacità di crescita”), a metà strada tra la psicologia di massa e la (cattiva) propaganda governativa.
Ma le cause congiunturali non bastano. Appare già più seria – come spiegazione – la “digitalizzazione dell’economia”, che è invece una modificazione strutturale, perché “l’automazione aumenta la produttività e dunque fa calarei costi di produzione; l’e-commerce accresce la concorrenza, dunque abbassa i prezzi; la computerizzazione mette a rischio molti lavori”. E qui ci fornisce un quadro di informazioni che accendono la luce su un futuro da paura: “secondo Morgan Stanley, chi lavora nell’ufficio crediti ha il 98% delle probabilità di vedere il suo ruolo sostituito da un computer nei prossimi due decenni, i recepzionisti hanno un rischio del 96%, gli assistenti legali del 94%”.
Un’ecatombe di posti di lavoro “trendy”, a medio-alta professionalità. Cui va aggiunto – e si tratta di una realtà già operante, non una previsione – l’impatto devastante di Wordsmith Beta, una piattaforma di proprietà della Automated Insights, che genera articoli “giornalistici” su molti temi “serializzabili” (in prima fila le notizie di borsa, quelle sugli utili trimestrali delle imprese quotate oppure sugli eventi sportivi relativamente minori). Che lo usi Yahoo! per riempire la sua pagine di news può non spaventare nessuno, che lo faccia anche l’Associated Press, rispettata multinazionale dell’informazione globale, dovrebbe inquietare anche i venditori ambulanti, non solo i giornalisti che resteranno disoccupati per sempre.
Fuochino!, urla il marxista che è in noi. Se molte “professionalità” sono automatizzabili e dunque eseguibili da un robot che esegue routine infomatiche, ne conseguono almeno due tendenze progressivamente dotate di vita propria: a) i prezzi calano (viene eliminato il lavoro umano e ridotto al minimo quello di energia; restano solo i costi delle materie prime impiegate e l’ammortamento dei macchinari); b) la disoccupazione tecnologica diventa universale (riguarda classi sociali e le più diverse figure produttive, dal muratore all’analista finanziario).
Preferite la sintesi all’enumerazione delle conseguenze? Avete ragione. Eccola: la quantità di merci di qualsiasi tipo (anche “cognitive”, per gli amanti del genere “cazzate”) può aumentare in modo esponenziale, ma la quantità dei clienti solvibili (tradotto: con un reddito mensile sufficiente) diminuisce.
Morya Longo arriva al dunque seguendo un’altra strada ancora, quella delle delocalizzazioni. “Se c’è una ripresa della domanda di un bene in un determinato paese, l’eventuale carenza di offerta domestica viene oggi compensata dall’arrivo di prodotti esteri”. L’economista di IntesaSanPaolo da lui contattato confonde cause ed effetti (la delocalizzazione fa produrre all’estero e reimportare nel paese d’origine una serie di merci per decisione dell’imprenditore che intende risparmiare sul costo del lavoro, non per una “richiesta del mercato”), ma il risultato definitivo appare lo stesso: “Questo crea uno strutturale eccesso di offerta”.
Bingo!, rimbomba sugli altoparlanti marxiani. C’è sovrapproduzione. C’è troppo capitale in giro in cerca di “valorizzazione”, ovvero di profitto corrispondente all’investimento. Troppo capitale, troppi soldi, troppa merce (potenzialmente, se la domanda è ferma le catene di montaggio rallentano o si fermano). Persino troppe persone che hanno bisogno di lavorare per vivere.
Ci vuole una buona “testa teorica” (meglio molte, se possibile), che abbia(no) letto libri diversi da quelli su cui viene fatta studiare l’economia attuale, per vedere il legame fortissimo tra eccesso di produzione potenziale, eccesso di liquidità e “necessità” si quantitativi sempre maggiori di liquidità per non far implodere un sistema ormai bloccato da “eccesso di offerta” da oltre otto anni. E forse molti di più…
Altro che “trappola della liquidità”, insomma. Se volete un’immagine, riflettete sull’Uroboro.
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