Da una parte un pubblicitario malriuscito che strepita, ovunque vada, “il paese è ripartito” (l’ha detto persino a Pompei, finendo nel ridicolo di una frase da suicidio come “Pompei è il simbolo dell’Italia che riparte”), dall’altra i numeri – impietosi – della crescita economica vera. Che non si misura davvero su uno zero virgola in più o in meno, ma su scala globale, sulle tendenze generali.
E allora arriva davvero a proposito questo studio inglese – autori i ricercatori del Center for Economics Business and Research – secondo cui, a questo ritmo, l’Italia passerà dall’ottava alla tredicesima posizione nel ranking globale nei prossimi 15 anni.
Non che queste classifiche abbiano molto senso, fondate come sono su trend immaginati stabili a partire dalle condizioni attuali. Mentre, lo sappiamo bene, gli eventi economici, politici e militari possono cambiare in un attimo il corso di un paese o di un’intera area. Basterebbe andare a vedere quali erano le “previsioni di crescita” di lungo periodo di Siria, Iraq o altri paesi prima che qualcuno decidesse di portare lì la guerra. O quelle dell’Iran prima dello storico accordo con l’occidente sul nucleare, che – abbattendo lentamente l’embargo – faciliterà un ritmo di sviluppo ben più rapido di quello fotografato solo due anni fa.
In generale, è abbastanza scontato che grandi paesi un tempo “sottosviluppati” – come si diceva con espressione infame – una volta intrapresa la strada dell’industrializzazione facciano valere abbastanza rapidamente il peso dei numeri (quantità di popolazione al lavoro con tecnologie moderne, a grande resa per unità di lavoro), anche se per calcolare il livello di “benessere” bisognerà sempre valutare il Prodotto interno lordo (Pil) pro capite, oltre che in valore assoluto.
Nello studio inglese, infatti, la Cina supererà in tromba gli Stati Uniti (fermo restando che la ricchezza pro capite Usa resterà più alta di quella cinese, benché il divario si andrà ulteriormente riducendo).
I problemi che affliggono l’Italia sono sempre gli stessi – secondo l’ottica neoliberista che ovviamente domina anche nella ricerca inglese: alto debito pubblico, crescita piatta (gli zero virgola non contano niente…), investimenti in tecnologia ridicoli (e questi non dipendono davvero dai “privilegi” dei lavoratori, ma dalla piccineria degli imprenditori nazionali), e le famose “riforme” che il governo sta facendo ma sarebbero comunque “troppo lente”.
Quasi gli stessi problemi della Francia, che rischia la stessa lenta caduta, fino a finir fuori – insieme a “noi” – dall’elite del G8.
Anche qui si potrebbe dire “e allora”? Allora c’è un altro rischio: geopolitico, non solo economico. Certe posizioni, infatti, non servono solo nei discorsi dei leader temporanei di questo o quel paese, ma indicano un peso specifico relativo nei rapporti di forza internazionali. Un tredicesimo, per capirci, conta molto meno di un ottavo. A qualsiasi livello e in qualsiasi trattativa.
Neanche per la Gran Bretagna, però, le cose sono facili. I ricercatori affibbiano alla “perfida Albione” una conquista del quarto posto in pochi anni (trainata però quasi esclusivamente dalla dinamicità della piazza finanziaria di Londra, non dalla forza dell’apparato industriale). Ma soltanto se resterà in qualche misura all’interno dell’Unione Europea, di cui condivide molti vantaggi avendone però rifiutato i rischi (a partire dalla moneta comune, visto che si è tenuta stretta la sterlina, a plateale dimostrazione dei “molti pesi e molte misure” vigenti nella Ue). Se invece dovessero prevalere le pulsioni alla Brexit, il quadro cambierà drasticamente in peggio.
Ultimo dettaglio: la Germania potrà mantenere negli anni l’attuale posizione soltanto grazie… all’immigrazione. L’invecchiamento della popolazione – fenomeno comune a tutti i paesi avanzati – comporta una diminuzione rapida dei “talenti” da mettere in produzione, quindi il declino (inutile spiegarlo a Salvini, non ci può arrivare). Più precisamente: ”I migranti faranno aumentare i profitti, rallenteranno la crescita dei salari e allevieranno la mancanza di talenti”.
Tutto questo in teoria, naturalmente. Ogni cambiamento comporta reazioni, spesso impreviste, altrettanto spesso imprevedibili. Anche perché i cambiamenti non corrono su un binario rettilineo, ma si fanno largo distruggendo antichi assetti e sollevando nuove forze. Il risorgente nazionalismo, condito di razzismo identitario, per esempio, è un tumore regalataci da quelle stesse “regole europee” che avrebbero dovuto cancellarlo per sempre.
Ma è il destino degli apprendisti stregoni, no?
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