Mentre tutti i media si occupano ossessivamente dello scandalo Consip e relativi scambi di insulti tra tutti i nani della politica nazionale, il governo Gentiloni – zitto zitto, nel più confortevole dei coni d’ombra, si appresta a varare una politica fiscale e di bilancio piuttosto ambiziosa. E dalle pesanti conseguenze sociali.
L’obiettivo ufficiale è quello di stimolare la crescita, naturalmente; quello più a portata di mano è però la riduzione del “cuneo fiscale”, ovvero di quella differenza tra costo del lavoro per le imprese e salario netto in busta paga. Questo cuneo è presente in ogni paese, ma in Italia (41,6%) è al di sopra della media europea (superato solo da Francia, Ungheria,Austria, Rep. Ceca, Slovacchia e Belgio).
Una mossa del genere ridurrebbe a zero il differenziale soprattutto rispetto alla Germania, mentre resterebbe intatta qualsiasi altra differenza tra i due sistemi-paese. Una misura di “protezionismo fiscale”, insomma. La speranza è che comincino a funzionare gli altri interventi decisi durante i governi Monti-Letta-Renzi, tutti univocamente orientati a fa scendere il costo del lavoro, aumentare la produttività (ma senza investimenti produttivi verrebbe recuperata solo tramite aumento di orari, ritmi, flessibilità del lavoro), comprimere il salario nominale (grazie ai contratti nazionali siglati negli ultimi anni da Cgi-Cisl-Uil). La ripresa dell’inflazione, in questo senso, sarebbe davvero una trappola micidiale per i lavoratori dipendenti, visto che il “recupero” dell’inflazione in busta paga – oltre ad essere inferiore – è ora addirittura posticipato all’anno successivo.
Ma la riduzione del cuneo, da sola, non basterebbe a soddisfare le richieste dell’Unione Europea relative sia alla “manovrina” da 3,4 miliardi, sia al Documento di economia e finanza che prepara la legge di stabilità 2018. La via stretta su cui Gentiloni e Padoan marciano è l’individuazione che possano risultare potabili sia ai (sempre meno numerosi) renziani di stretta osservanza, sia ai “progressisti” che stanno lasciando il Pd. Specialmente questi ultimi hanno momentaneamente vincolato il proprio sostegno al governo a imprecisate misure a favore del lavoro e dellìoccupazione, mentre i primi sono berlusconianamente avvinghiati al sogno della riduzione delle tasse.
Il piano – riassunto in questo modo da Federico Fubini sul Corriere della sera – ha qualche ambizione e necessita di tempi lunghi; sicuramente da qui alla scadenza naturale della legislatura.
una nuova spending review, che partirà in primavera e i cui «commissari» di fatto sono lui stesso e Padoan; una risposta al dramma della povertà, finanziata con i risparmi di spesa pubblica; un taglio molto deciso al cuneo fiscale che grava sul lavoro e sulle imprese, da disegnare nell’imminente Documento di economia e finanza (Def) e da finanziare con un affondo altrettanto deciso contro l’evasione Iva; una manovrina da 3,4 miliardi, come chiesta da Bruxelles, che anticipa nel 2017 parte di queste misure degli anni prossimi; e a quel punto un dialogo con la Commissione Ue, realistico e pacato, per evitare una stretta di bilancio da 20 miliardi in autunno proprio grazie a questa ampia riforma fiscale.
Si noteranno i numerosi incastri (finanziare le misure contro la povertà con i risparmi di spesa, e il taglio al cuneo fiscale con la lotta all’evasione dell’Iva), che rendono aleatorie le previsioni. Di certo c’è il taglio della spesa pubblica, che ha per sua natura effetti deflazionistici; quindi contrari alla sbandierata necessità di stimolare la ripresa, ma funzionali a ridurre il deficit e il debito pubblico (come preteso dalla Troika).
Si dirà: ancora con ‘sta storia della spending review? E chi ci crede più…
E invece il meccanismo stavolta potrebbe partire davvero. In parte perché non verrebbe nominato un commissario esterno (certamente boicottato dai grandi funzionari statali sottoposti a una supervisione vissuta come ingerenza), ma lo stesso premier e il ministro dell’economia. Che possono ora poggiarsi su nuove norme “automatiche” decise nella “riforma della procedura di bilancio” approvata nello scorso anno. In pratica, i ministeri saranno tenuti a rispettare programmi triennali di riduzione della spesa per via amministrativa, senza insomma altri interventi legislativi, decreti attuativi, contrattazioni defatiganti con i diversi centri di spesa. Di fatto, con il Def da presentare in maggio, il governo fisserà i limiti di spesa di tutti i ministeri da qui al 2020, con le relative scadenze annuali. Una soluzione di autorità, che dunque appare non troppo complessa da attuare.
Tutt’altro discorso, invece, per la lotta all’evasione dell’Iva. Un problema che riguarda circa il 30% del fatturato generato in Italia, per un totale di 41 miliardi l’anno. Un “vantaggio competitivo” fin qui ampiamente utilizzato soprattutto dalle fasce imprenditoriali e professionali che hanno costituito per decenni il grosso del blocco sociale democristiano-craxiano-berlusconiano.
Qui il governo sembra intenzionato a procedere per via tecnologica, introducendo (o rendendo più verificabile) anche nelle transazioni tra imprese private i meccanismi di fatturazione elettronica obbligatori per i fornitori della pubblica amministrazione. I controlli dell’agenzia delle entrate, in questo modo, verrebbero concentrati soprattutto su quelle imprese che non vi fanno ricorso, rendendo così più probabile la scoperta di transazioni “in nero”. Difficile pensare che lo Stato riesca così a recuperare per intero qui 41 miliardi evasi, ma anche solo un terzo del totale – l’obiettivo dichiarato dal governo – metterebbe a disposizione cifre rilevanti per giocare la carta di una riduzione effettiva del “cuneo”.
Come si vede, a parte generiche “misure di lotta alla povertà”, non c’è nulla che vada in controtendenza rispetto all’impoverimento della maggioranza della popolazione. Anzi, bisognerà guardare attentamente nelle misure concrete della spending review per calcolare di quanto verrà ridotto ancora il perimetro del welfare. Le voci di spesa da sempre al centro delle politiche di taglio sono note: sanità, pensioni, istruzione, dipendenti.
La ”sterzatina” di Gentiloni rispetto ai tre anni renziani, dunque, è nel segno di una più silenziosa e rapida obbedienza ai diktat di Bruxelles. Continuando a comprimere i consumi e il mercato interno, infatti, il “recupero di competitività” derivante dal trittico cuneo fiscale-flessibilità della manodopera-bassi salari andrà tutto vantaggio delle imprese esportatrici. Modello mercatilista tedesco, insomma, senza avere i pilastri tedeschi.
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