Nell’autunno del 2011 (era l’inizio del governo Monti), l’apertura di un contenzioso con la banca d’affari Morgan Stanley per la chiusura anticipata di un derivato finanziario, costò al governo un esborso di 3,1 miliardi di euro. L’ex ministro dell’economia e finanza, Vittorio Grilli, ha affermato ieri in Commissione parlamentare che il governo fece bene a pagare – invece che a riscuotere – perchè “avrebbe voluto dire che l’Italia non paga e che il paese era in default o pre-default”. Vittorio Grilli, ministro dell’Economia tra il novembre del 2011 e il luglio 2012, in precedenza direttore generale del Tesoro e Ragioniere generale dello stato, oggi è un manager della banca d’affari JP Morgan, insomma una classica volpe che il governo Monti mise a guardia del pollaio. E i risultati si vedono.
Grilli, ascoltato in commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario in crisi ha dovuto rispondere ad una domanda del vicepresidente Renato Brunetta sulla clausola di derivato che ha consentito a Morgan Stanley la chiusura anticipata del contratto definita dal politico “spaventosamente onerosa per Repubblica italiana”, ovvero ben 3,1 miliardi di euro pubblici finiti nelle casse della banca d’affari. Un contenzioso con Morgan Stanley “non era assolutamente nelle carte”, ha ribadito Grilli. “Aprire un contenzioso su un derivato voleva dire che l’Italia non paga” e che non sarebbe stata in grado di pagare il debito. Per questo, “ritengo che l’amministrazione abbia preso la decisione giusta in quell’anno” di pagare 3,1 mld per la chiusura anticipata del derivato stipulato dal Mef con Morgan Stanley perché qualsiasi altra decisione “in quel momento avrebbe avuto conseguenze devastanti”. Grilli ha poi riferito di aver saputo dell’esistenza della clausola “soltanto a fine 2011, a novembre”. Dopo aver lasciato il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2014 Grilli è entrato nella squadra della banca d’affari, Jp Morgan.
Non si sono ancora spenti i riflettori sulle talpe dei comitati d’affari dentro il Mef che un ex ministro – oggi manager di una banca d’affari – conferma come i soldi pubblici finiscano alle banche, anche straniere, sulla base di valutazioni del tutto opinabili.
Solo qualche settimana fa è stato scoperto che Susanna Masi, consigliera del Mef, per mesi avrebbe percepito un “doppio stipendio” per aver rivelato particolari riservati sulle normative fiscali allo studio del governo italiano e della Ue, in particolare sulla Robin Tax, alla società di consulenza internazionale Ernst & Young, per la quale aveva lavorato prima di iniziare la sua attività di consigliere del ministro dell’Economia. La donna, dopo aver assunto l’incarico al Mef nell’agosto del 2013, aveva dichiarato di non aver alcun conflitto d’interesse. Da quanto è emerso da un’inchiesta condotta dai pm di Milano Giovanni Polizzi e Paolo Filippini, in realtà, continuava a percepire bonifici dalla società di consulenza. Per gli inquirenti la Masi, grazie al suo ruolo negli staff dei ministri Fabrizio Saccomanni e Pier Carlo Padoan, avrebbe fornito informazioni riservate su leggi in materia fiscale ancora allo studio a livello europeo di cui veniva a conoscenza partecipando per conto del Mef a tavoli tecnici con colleghi degli altri Paesi europei.
Con un ministero strategico come il Mef in mano a personaggi come Grilli o la Masi con quale faccia vengono a chiederci tagli, sacrifici, austerità su pensioni, sanità, lavoro, scuole in nome della riduzione del debito pubblico? Il ricatto dello spread, l’insostenibilità del debito pubblico (passato dal 102% del 1992 al 134% del 2016 nonostante le terapie “lacrime e sangue”), i giudizi “dei mercati”, sono delle sanguinose menzogne dei governi, degli uomini e delle donne legati alle banche e messi ai posti di comando strategico, menzogne che vanno sbaraccate via. Prima lo si fa meglio è per il paese. Come si dice? Potere al popolo!!
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