“Il lavoro lo creano le imprese”, “se hanno fatto i soldi significa che sono stati più bravi”, “guai a mettere in discussione il merito”, “i ricchi sono invidiati, ma fanno il bene della gente”…. Quante menzogne dello stesso tipo sentiamo ogni giorno, riversate dai talk show o seminate in ogni anfratto della “comunicazione” mainstream?
Una abilità certamente ci vuole, ma non permetterebbe di accumulare certe ricchezze, o di fissare diseguaglianze così abissali, se non esistesse un meccanismo economico politicamente gestito che permette al famoso “1 per cento” più ricco di detenere quanto il resto della popolazione del pianeta.
I meccanismi economici e fiscali sono ovviamente infiniti, in continua trasformazione, anche perché tutti gli Stati “concorrono” tra loro nel cercare di attirare i capitali. E la “concorrenza” interstatuale si concretizza in trattamenti di favore impensabili per “il comune cittadino”. Anzi, quest’ultimo deve farsi carico per primo di tutti i buchi provocati nelle entrate statali da trattamenti di favore sempre più generosi. Si va dal finanziamento diretto (soldi pubblici per “agevolare l’investimento privato”) fino agli sconti fiscali, sempre più aggressivi. In altri termini, non solo le imprese più forti aumentano i profitti privati, ma diminuiscono enormemente il loro contributo alla “cosa pubblica”, che ricade ormai quasi interamente sulla quota dei salariati.
Negli ultimi dieci anni, passati a cercare rimedi (sbagliati) alla crisi sistemica, lo scarto tra pressione fiscale sulle imprese e livello dell’esazione sui comuni cittadini-lavoratori è diventato così clamoroso da colpire persino i redattori de IlSole24Ore, organo di Confindustria. Non sono ammattiti né passati da questo lato della barricata. Semplicemente, nel gioco delle imprese che “concorrono tra loro” a strappare la quota di riduzione fiscale più grossa, la parte del leone viene fatta – senza sorprese – dalle imprese multinazionali. Ossia da quelle che hanno il più grande potere di pressione, proporzionale alle dimesioni del proprio fatturato, e la possibilità operativa di spostare in pochissimo tempo la propria attività (e sede sociale o fiscale) da un paese all’altro, da un continente all’altro.
Quelle imprese giganti che, insomma, sempre meno hanno le caratteristiche per innalzare la bandiera italica. Anche Confindustria, insomma, comincia a temere che l’eccesso di liberismo e favore fiscale finisca per travolgere la tipologia di impresa di cui è espressione associata.
A voi l’articolo…
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Le tasse calano per le multinazionali (-9%) ma non per i cittadini (+6%)
Sul fatto che la grande crisi finanziaria del 2008 abbia rappresentato uno spartiacque storico pochi hanno dubbi. Anche sotto il profilo della pressione fiscale, con i Governi alle prese con il contenimento del deficit e la riduzione dei debiti pubblici. Il risultato è che nei Paesi Ocse il livello di tassazione sulle persone fisiche dal 2008 a oggi è aumentato in media del 6%, secondo i dati di Kpmg, mentre la pressione fiscale sulle imprese è scesa del 5%. Fin qui restiamo nel regno della logica: non tartassare le imprese in teoria significa sostenere il lavoro, e quindi i redditi delle persone fisiche.
Quello che però fa impressione è come le grandi multinazionali riescano a “tagliarsi” le tasse a una velocità quasi doppia rispetto alla media delle imprese: secondo uno studio del Financial Times, dal 2008 a oggi le big corporation sono riuscite a diminuire del 9% la tassazione sui profitti rispetto al periodo precrisi, grazie anche alle note tecniche di elusione legalizzata effettuate parcheggiando montagne di denaro in sofisticate scatole societarie all’estero.
Ma le grandi multinazionali, elusione a parte, hanno anche raccolto i frutti della corsa mondiale ad abbassare la corporate tax, con diversi Paesi in competizione per attrarre le grandi società. L’aliquota media per le imprese nei Paesi Ocse, che superava quota 32% nel 2000, è progressivamente calata al 26% nel 2008 e al 25% nel 2015, come attesta lo studio “Tax Policy Reforms in Oecd”. I Paesi che hanno tagliato di più nel periodo 2000-2015 risultano essere Germania, Canada, Grecia e Turchia, con le soltanto Ungheria e Cile che hanno ritoccato verso l’alto le aliquote.
Anche l’Italia, dal 1° gennaio 2017, ha ridotto dal 27,5% al 24% l’Ires, l’imposta sul reddito delle imprese, mentre da quest’anno la riforma fiscale voluta da Donald Trump ha quasi dimezzato la corporate tax statunitense, passata dal 35% al 21% con un risparmio stimato per le società di circa 500 miliardi di dollari.
Il risultato della gara globale ad attrarre le grandi compagnie è che dal 2000 a oggi, stando allo studio del Financial Times, le maggiori multinazionali mondiali sono riuscite a “tagliarsi” le tasse di un terzo del totale. Il gettito fiscale perduto è stato compensato dall’aumento di altre imposte, spiega invece l’analisi dell’Ocse, in particolare l’Iva, che nei Paesi Ocse è passata da un’aliquota media del 17,6% nel 2008 al 19,2% nel 2015.
esempio da manuale resta quello dell’Irlanda. La famosa corporate tax al 12,5% che fin dall’inizio degli anni Duemila ha fatto la fortuna della Tigre Celtica si ritrovava, negli anni Ottanta, all’astronomico livello del 50%. Con un Pil che continua a macinare record proprio grazie alle multinazionali che hanno spostato la loro sede nell’isola di Smeraldo “fondendosi” con controparti irlandesi, Dublino è un ottimo esempio di come un’aggressiva detassazione possa far correre il prodotto interno lordo. E di come le multinazionali abbiano gioco facile, in questo risiko fiscale planetario, a lasciare che siano i cittadini (o le piccole imprese) a contribuire alle finanze pubbliche dei singoli Stati.
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