L’ Istat in collaborazione con l’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà (INMP) ha pubblicato il primo “Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione”.
Le diseguaglianze socioeconomiche nella salute sono state osservate in tutti i paesi dell’Unione Europea sulla base dell’analisi di indicatori oggettivi quali la mortalità e la morbidità (frequenza di una malattia nella collettività) dei singoli paesi. Molti studi sulle disuguaglianze di salute utilizzano come proxy dello stato socioeconomico individuale il titolo di studio, in quanto è una variabile disponibile in tutti i sistemi informativi, rilevata in maniera accurata e fortemente correlata ad altre misure di posizione sociale quali: la condizione occupazionale, il reddito, ma anche la classe sociale di origine in paesi in cui la mobilità sociale non è molto garantita.
I risultati prodotti in questo Atlante sono molto interessanti e portano necessariamente a valutazioni sulle future politiche di welfare del nostro paese; l’importanza di questo prodotto è dovuta al fatto che per la prima volta fenomeni da decenni noti vengono misurati.
La prima cosa che emerge è che c’è una relazione a gradini tra livello di istruzione e la mortalità: più basso il livello di istruzione, maggiore è il rischio. Inoltre in Italia la mortalità è differenziale non solo per livello d’istruzione ma a parità di esso anche per luogo di residenza.
Le persone meno istruite di sesso maschile rispetto alle più istruite mostrano in tutte le regioni una speranza di vita inferiore di tre anni (82,3 versus 79,2) mentre tra le donne un anno e mezzo (86 versus 84,5). A questo gap va inoltre lo svantaggio delle regioni del Mezzogiorno dove i residenti perdono un ulteriore anno di speranza di vita, indipendentemente dal livello di istruzione. Prendendo come esempio due situazioni estreme: un uomo residente nella Provincia Autonoma di Bolzano con un livello di istruzione alto può sperare di vivere ben 6,1 anni in più di un uomo residente nella regione Campania con un titolo di istruzione basso (83,6 versus 77,5); mentre una donna residente nella Provincia Autonoma di Bolzano con un livello di istruzione alto può sperare di vivere ben 4 anni in più di una donna residente nella regione Campania con un titolo di istruzione basso ( 86,9 versus 82,9).
Il dato pone immediatamente l’attenzione rispetto alle politiche di welfare, in particolare per quanto riguarda l’accesso alle cure, ma se questo esercizio numerico viene riportato al nostro sistema pensionistico, si paleserà immediatamente l’ennesimo elemento d’ingiustizia sociale: infatti un dirigente o professore universitario o medico del Nord, in termini medi usufruirà per circa 6/4 anni, a seconda del genere, di fondi pensionistici in più rispetto ad un lavoratore con una bassa mansione residente al Sud, tutto questo a parità di anni di contributi versati.
Il dato e le considerazioni che da esso scaturiscono smontano l’assunto che la legge Fornero sia basata sulle evidenze scientifiche, in quanto utilizza la speranza di vita come parametro da tener presente nel calcolo per l’accesso all’assegno previdenziale. O meglio, fa un utilizzo “criminale” delle evidenze scientifiche in quanto scientificamente sancisce la sostenibilità del sistema pensionistico a carico delle classi sociali meno abbienti, i cui contributi serviranno in buona parte a pagare la pensione dell’alta borghesia lungo tutto il corso della loro lunga e a volte lunghissima vita.
Link all’Atlante :https://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato2704282.pdf
*Unione Sindacale di Base
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