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Il controsenso del denaro che non “rende”

C’è una legge economica che è sempre stata in vigore, anche molto prima della comparsa del modo di produzione capitalistico: si presta denaro a qualcuno per riceverne di più alla scadenza fissata.

Le eccezioni a questa legge hanno sempre avuto carattere politico (finanziare a fondo perduto la ricostruzione di un paese o di sue zone devastate da calamità, naturali o belliche), e messe in moto da un potere statuale (dagli Assiri ad oggi, potremmo dire).

Ma nell’attività ordinaria, sia pubblica che privata, quel “di più” ricevuto dal prestatore di denaro (interesse) è il “premio” per il rischio, sempre possibile, che il debitore non restituisca la somma ricevuta (per impossibilità reale o per dolo).

Insomma: prestare denaro con la certezza di perderne una parte è un controsenso, in qualsiasi modo di produzione.

Per meglio dire, è un segnale che quel sistema non funziona più.

Il che sarebbe logico, come detto, in caso di catastrofi naturali o come effetto di una guerra, ma non quando (e dove) non si sono verificate né le une né le altre.

Questa è la situazione in cui si trova (in parte) l’economia mondiale, ma soprattutto quella europea. I tassi di interesse reali (quelli nominali più il tasso di inflazione) sono negativi da anni. E più un paese è economicamente forte, più i suoi titoli di stato sono considerati “sicuri”, più sono negativi i tassi.

Il che ha un risvolto positivo per i conti pubblici di qualche Stato (la Germania, soprattutto), ma molti – e tutti negativi – per i mitici “investitori” e a maggior ragione per i “risparmiatori” (chiunque possieda un conto in banca, in pratica, anche solo per ricevere lo stipendio).

Nella assurda condizione europea pesano certamente le difficoltà globali. Da dieci anni a questa parte, per le economie “mature” (i paesi di più lunga tradizione capitalistica), non c’è mai stata una vera ripresa dalla crisi del 2007-2009. Al massimo, i più fortunati, sono tornati ai livelli precedenti, mentre alcune economie emergenti (la Cina, ma non solo) crescevano a ritmi inimmaginabili qui.

Ma in primo luogo pesa il “modello di sviluppo” imposto dal sistema dei trattati dell’Unione Europea: si è puntato tutto sulle esportazioni, comprimendo la “domanda interna” attraverso la riduzione del monte salari reali (con l’esplosione dei contratti precari e del part time involontario). In questo modo le merci da esportare costavano meno ed erano più “competitive”, con il perverso effetto di non stimolare un adeguato ritmo di sviluppo tecnologico.

Per qualcuno ha funzionato (la Germania e l’Olanda), permettendo di riscrivere le filiere produttive e/o attirare fiscalmente multinazionali di altri paesi (Fiat/Fca e non solo), per altri è stato un disastro (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Francia). Sono ingigantite le disuguaglianze, in una crescita quasi a “somma zero”, ma complessivamente questo sistema ha “tenuto” per parecchi anni.

Quando la “globalizzazione” si è interrotta (dieci anni fa, appunto, con la crisi), ed è cominciata l’era della “competizione tra macro-aree economiche” (inter-imperialista, si diceva quando si pensava in termini sistemici), le esportazioni sono andate diminuendo e con esse anche la dinamica di crescita delle economie continentali.

Resiste chi ha nel frattempo sviluppato il mercato interno, aumentando i salari nazionali (le economie emergenti). Stagna o arretra chi ha fatto la scelta opposta, da 30 anni a questa parte (l’eurozona, in primo luogo, ma anche gli Stati Uniti, dove i profitti finanziari non si trasmettono più all’economia reale).

Ripetiamo, dunque: che il prestare denaro non garantisca più un guadagno, ma anzi assicuri una perdita, è un sintomo di malattia grave del sistema. Che ormai galleggia sul mare di liquidità – in gran parte fittizia – garantito da quasi dieci anni di “politiche monetarie ultra-espansive” messe in atto da tutte le banche centrali principali (Federal Reserve, Bce, BoJ, Bank of England).

Come sa ogni mediocre marinaio, se galleggi e basta stai andando alla deriva. Prima o poi una costa o scogli affioranti li incontri. E ci sbatti contro.

Per una attenta analisi tecnica, l’editoriale di Guido Salerno Aletta su TeleBorsa può aiutare anche gli increduli.

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BCE sul baratro dei tassi negativi

  * Guido Salerno Aletta –  TeleBorsa

La politica dei tassi di interesse negativi, adottata dalla BCE, è una novità assoluta in migliaia di anni di storia del denaro. E sta producendo effetti disastrosi per tutti.

La decisione iniziale, al riguardo, fu la penalizzazione dei depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria presso la stessa BCE: si voleva disincentivare, con un tasso negativo, il parcheggio di liquidità presso la stessa Banca centrale europea. Si riteneva, in questo modo, di indurre le banche ad effettuare il loro mestiere, che è quello di prestare il denaro.

In realtà, ci sono altri, e ben più pesanti condizionamenti rispetto alla concessione dei crediti, che sono stati imposti dalla medesima BCE: c’è, primo tra tutti, il rapporto tra crediti erogati e capitale bancario, pesato per di più in funzione del rischio di ciascuna categoria di prestiti (RWA).

E poi, come se non bastasse, c’è una questione di fondo, che riguarda il clima economico: il nuovo credito viene erogato in funzione delle aspettative dell’investitore. Se le aspettative sono di una stagnazione del mercato, ed ancor più quando l’impresa ha una capacità produttiva non completamente utilizzata, di certo non progetta di fare nuovi impianti. Al massimo cerca di ridurre i costi, rendendo più efficienti gli impianti già esistenti.

La caduta degli investimenti privati, in tutta Europa, è una conseguenza di questa situazione di mercato depresso, di scarsa domanda interna, e di consumi stagnanti. Tutto frutto delle politiche fiscali restrittive imposta dal Fiscal Compact e dalla strategia di deflazione salariale, volta ad incrementare la competitività dell’export. Ora che l’export si è piantato, l’economia europea boccheggia. Abbiamo perso dieci anni, con danni immensi.

Se, dunque, gli effetti dei tassi di interesse negativi sui depositi ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria sono stati inutili rispetto all’obiettivo di aumentare il credito, anche le politiche di T-LTRO non hanno sortito alcun effetto: è del tutto inutile erogare liquidità a 3 anni alle banche, quando il credito che dovrebbe essere erogato con queste somme ha un ritorno economico dell’investimento su un lasso di tempo assai più ampio.

Le banche, quando prendono denaro a 3 anni dalla BCE, poi lo impiegano con crediti a medio e lungo termine, almeno a 5 anni: Un altro buco nell’acqua.

Il QE è stato devastante: l’acquisto da parte della BCE di titoli di Stato già emessi, sul mercato secondario, ha depresso i loro rendimenti a tal punto che la curva si è spostata al di sotto dello zero: in pratica, ancora oggi, i titoli tedeschi a dieci anni hanno un rendimento nominale negativo. Tenendo conto che in Germania l’inflazione dei prezzi al consumo è quasi al livello del 2% annuo, si arriva ad un rendimento reale negativo particolarmente penalizzante.

Sul breve termine, anche i titoli italiani hanno avuto questa caratteristica. In Svizzera, anche i titoli a 50 anni, hanno rendimenti negativi: è il prezzo che viene pagato per tenere il denaro in una cassaforte.
Così facendo, sono 
penalizzati tutti gli investitori che cercano un rendimento attraverso investimenti a bassissimo grado di rischio: prestano denaro, ma invece di guadagnarci ci perdono. Alla scadenza, infatti, viene restituito loro meno denaro di quanto ne hanno prestato.

Non solo vengono massacrati i singoli risparmiatori, ma anche i fondi pensione, le assicurazioni e le stesse banche. Queste, infatti, detengono i titoli di Stato come alternativa alla liquidità depositata presso la BCE. I fondi pensione sono costretti a cercare investimenti rischiosi, così come le assicurazioni: una crisi, farebbe crollare tutto.

Siamo arrivati così al paradosso: con i tassi nominali negativi, la BCE ha adottato una politica che è diametralmente opposta rispetto al mandato ricevuto. Questo consiste infatti nell’assicurare la stabilità della moneta, intesa come una garanzia di mantenimento del valore del denaro attraverso la stabilità dei prezzi. L’inflazione, infatti, erode il valore del risparmio.

Inutile, anzi impossibile, fare confronti con il Giappone o con gli Stati Uniti.

Negli USA, ancora oggi, il tasso di rendimento dei titoli del Tesoro è sempre stato positivo, anche in termini reali. Non c’è alcun motivo al mondo che giustifichi, nel raffronto, i tassi negativi sui titoli tedeschi, se non la diversa politica monetaria.

Neppure in Giappone ci sono tassi negativi. La BoJ, con la politica del tasso zero sui titoli di Stato, ha solo ridotto il costo degli interessi sul bilancio pubblico. Visto che i guadagni di produttività delle imprese vanno tutti alla riduzione dei prezzi di vendita, seguendo lo schema funzionale al mantenimento della competitività dell’export sui mercati internazionali, il ritorno per gli investitori in titoli di Stato giapponesi, che sono tutti giapponesi, risiede nell’aumento del valore reale del risparmio investito. Il colossale debito pubblico giapponese, d’altra parte, è finalizzato ad investimenti infrastrutturali che migliorano la produttività generale.

I giapponesi hanno imparato dalla crisi del Nikkei: non investono più in asset il cui prezzo tende ad inflazionarsi, come gli immobili o le azioni. E se investono in titoli del tesoro americano, lo fanno per tenere basso il cambio dello yen sul dollaro.

Se la BCE avesse finanziato investimenti infrastrutturali pubblici, comprando obbligazioni emesse dalla BEI, avrebbe sicuramente ottenuto risultati migliori sia in termini di crescita economica, che di occupazione.

Ed invece, con i tassi negativi, ha sacrificato anche gli investitori sull’altare del mercantilismo: bisogna produrre ai costi più bassi possibili, sacrificando sia i salari dei dipendenti che il capitale dei risparmiatori.

Le conseguenze devastanti sono sotto gli occhi di tutti: l’economia dell’Eurozona è in frenata, e quella tedesca non fa eccezione. Non c’è domanda, non c’è mercato.

L’Eurozona è ferma, mentre la BCE massacra i risparmio.

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