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Industria alimentare, non sarà un’etichetta a fermare lo sfruttamento

Non è più una novità l’associazione mentale del marchio “Amazon” con le condizioni in cui lavorano, a dispetto dei profitti macinati, i suoi dipendenti, come scritto poco tempo fa anche su questo giornale. Tuttavia, da circa due anni il riferimento non è più soltanto ai lavoratori del comparto della logistica, ma anche a quella dell’industria alimentare.

La multinazionale con base negli Stati uniti infatti ha rilevato la società di supermercati bio “Whole food” nel 2017 per 13,7 miliardi di dollari, un colosso da più di 90 mila dipendenti e 500 store che opera in Usa, Canada e Regno unito.

Solo l’anno seguente, a seguito della campagna “Behind the barcodes” (letteralmente, “oltre i codici a barre”) lanciata dall’Oxfam, i dipendenti della catena fecero sentire la propria voce per «aumentare l’attenzione sulle condizioni disumane e i salari da fame che devono affrontare i lavoratori impegnati su tutta la filiera globale di produzione che fa capo alla Whole food». Le richieste di miglioramento delle condizioni generali dei loro colleghi, inoltrati prima ai vertici della catena e successivamente anche ad Amazon, rimasero inascoltate.

L’attenzione su questa situazione non si attenuò con l’entrata nel 2019, e proprio ieri MarketWatch dedicava un articolo sulla contraddittoria situazione di una multinazionale che se da una parte si fregia del titolo di essere una delle big four (five se si considera la Microsoft) occidentali della tecnologia (in compagnia di Apple, Google e Facebook), dall’altra gode di ben altra reputazione tra i propri lavoratori.

Una sorte analoga si registra una volta superata la facciata che gli esperti di marketing hanno costruito per la rappresentazione pubblica della Whole food, dove a dispetto di una mission (obiettivo strategico di un’azienda) che dichiara la volontà di “nutrire le persone e il pianeta”, vede, tra gli altri, «i lavoratori delle aziende agricole di patate dolci della Carolina del nord che riforniscono la controllata di Amazon (la Whole food appunto), lavorare per 14 ore al giorno sotto un caldo opprimente, con poche pause e un accesso limitato ai servizi igienici».

Da parte sua Amazon è al centro delle polemiche a seguito del taglio, annunciato per il primo giorno del nuovo anno, della copertura sanitaria per quasi 2 mila lavoratori impiegati negli store della catena bio con orario part-time (classificati per Whole food fino a 29 ore settimanali). Sebbene il colosso dell’hi tech abbia dichiarato che con questa manovra vorrebbe solo spingere i lavoratori a considerare la trasformazione del contratto in orario a tempo pieno (30 o più ore), non sono mancate le durissime reazioni ai danni Jeff Bezos, fondatore e Ceo dell’azienda.

La situazione ovviamente assume i caratteri del (apparente) paradosso quando la protagonista di questi tagli è una società delle dimensioni e dei guadagni del gigante con sede a Seattle. Ma nei rapporti Oxfam le ricerche riguardano i lavoratori di fattorie e piantagioni negli Stati Uniti, così come in India o in Brasile, utilizzati da molte delle grandi catene alimentari. Qui, a farla da padrona sono povertà, dure condizioni di lavoro e discriminazione di genere per la produzione di tè, frutta o verdura, di quelle che comodamente troviamo nei supermercati di tutto il mondo.

Che la catena di produzione che riempie quotidianamente gli scaffali e le tavole anche del nostro paese sia fondata sullo sfruttamento delle risorse, umane e non, che ne fanno parte, è argomento che qui da noi sta guadagnando una certa risonanza – anche se, come troppo speso accade, solo in seguito a delle vere e proprie tragedie.

Il problema inoltre non si ferma alla produzione vegetale. Infatti, lo stesso si può dire per la filiera dei prodotti di derivazione animale, dove in particolar modo con il business degli allevamenti intesivi, allo sfruttamento della forza-lavoro si deve aggiungere quello del suolo (per esempio, il 90% del disboscamento della foresta amazzonica è dovuto alle piantagioni di soia necessarie ad alimentare i live stock), delle risorse naturali (oltre 4/5 dell’acqua potabile mondiale è destinata proprio agli animali stipati nelle fabbriche-gabbie) e l’emissione di quasi un quinto dei gas a effetto serra (l’intero settori dei trasporti nel mondo si ferma al 13%).

Insomma, da ovunque la si guardi, la situazione è tutto tranne che “sostenibile”, eppure questo non è quel che affermano alcune etichette con cui vengono imbellettati molti dei prodotti bio o green che inondano, a prezzi inoltre solitamente proibitivi per i più, i carrelli dei supermercati.

Ma questo, come si accennava poche righe più su, è un paradosso solo apparente, e rimane tale se non lo si inserisce nella logica che guida il modello di sviluppo di questa nostra società, ossia quella del profitto a tutti i costi mediante la produzione per la produzione (e dunque non in risposta alle necessità della popolazione) che si traduce nello sfruttamento, a favore di pochi, di tutto – niente e nessuno escluso.

In un quadro così tratteggiato è allora possibile racchiudere in modo coerente, per esempio, il Big Mac 100% vegetale lanciato due anni fa da McDonald’s: nessuna improvvisa presa di coscienza da parte della dirigenza californiana, solo l’intuizione di un margine di profitto in un mercato in costante espansione, di cui l’azienda vuole accaparrarsi la propria fetta.

Una precisazione personale si rende a questo punto necessaria: quanto detto fin’ora non vuole essere un cieco attacco a un certo di tipo di scelte alimentari salite alla ribalta del dibattito, spesso con un livello decisamente basso, negli ultimi anni.

Ma il problema, come sempre quando si tratta di azione politica, è la possibilità di incidere effettivamente sulla realtà. E qui, piaccia o meno, da soli non si va da nessuna parte, e come se non bastasse, o si agisce sugli assi portanti, sulla struttura fondamentale che dà forma a un sistema, o il cambiamento non ha effetti rilevanti.

Detto altrimenti, una retorica salutista non fa il paio con la fine dello sfruttamento incondizionato delle risorse naturali, e se la fine degli allevamenti intensivi non si accompagna con la fine dell’oppressione dell’essere umano, la logica del modo di produzione capitalistico non viene posta in discussione, dandogli così modo di riprodursi (come infatti fa) in tutta la sua ferocia e la sua pericolosità.

È una questiona di alternativa, non di “aggiustamento”.

* La seconda foto nel testo è di Patrizia Cortellessa

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