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Eurostop: “Ue irriformabile, serve un movimento che punti alla sua rottura”

Sala piena, ieri sera, per l’assemblea romana che voleva fare il punto, sia pure provvisorio, sui “dieci giorni” che hanno sconvolto l’immaginario progressista sulla natura dell’Unione europea. Militanti, attivisti di lunga o breve militanza, sindacalisti riuniti per prendere atto che qualcosa di profondo è definitivamente cambiato nel nostro orizzonte e occorre prenderne atto il prima possibile, altrimenti anche il più serio dei conflitti sociali è destinato a esaursi  senza produrre risultati né lasciare traccia.

Mauro Casadio, per la campagna Eurostop Italia – partita due mesi fa nel Forum di Napoli, che si va allargando contemporaneamente anche in Grecia e in Spagna – introduce delineando il fatto politico nuovo: il “golpe” condotto contro il governo greco è la dimostrazione empirica, concreta, di quella che fino a due settimane fa sembrava solo il frutto di un’analisi complessa. Ovvero che l’Unione Europea non è affatto uno “spazio politico” entro cui far giocare interessi e programmi socio-politici di ogni tipo, ma una macchina da guerra costruita contro il movimento operaio, i diritti del lavoro, la possibilità stessa di tradurre il conflitto sociale in atti legislativi positivi, in “riforme sociali” di segno progressivo.

Quindi non possono avere più alcuna possibilità di incidere tutte quelle visioni “riformiste” che non prendono atto di questa realtà istituzionale, transnazionale e tendenzialmente apolide, che però sforna decisioni vincolanti per 500 milioni di persone senza che queste possano mai pronunciarsi nel merito di quelle disposizioni.

La Grecia è stata per sua sfortuna il laboratorio in cui questa realtà si è manifestata con particolare chiarezza e durezza. Un  movimento di sinistra radicale, cresciuto in cinque anni di conflitto sociale e quasi venti scioperi generali, che oltretutto aveva avuto la lungimiranza di non prestarsi mai – al contrario dei tifosi italici – ad alleanze elettorali con i “democratici” del Pasok (il corrispettivo del Pd, più o meno) ha vinto le elezioni su un programma tanto popolare quanto impossibile: restare nell’Unione Europea e nella moneta unica, ma mettendo fine alle politiche di austerità.

Quasi sei mesi di finte trattative, proposte via via meno radicali, marce indietro e un referendum clamorosamente vinto e immediatamente rovesciato nel suo contrario, hanno portato solo a un terzo “memorandum” di diktat, in un crescendo di “intenti punitivi” per chi aveva osato chiedere un allentamento del “rigore” (mica la rivoluzione…).

L’austerità è l’Unione Europea, non una parentesi sbagliata in un percorso correggibile. E’ la conseguenza diretta di trattati pensati, scritti e firmati per consolidare e stabilizzare regole indiscutibili, “migliori pratiche” con forza di legge. Chi non vuole seguirle perché le ritiene sbagliate o mortali (per acune classi, per un paese, ecc), chi le vorrebbe correggere, ha solo due scelte davanti: rinunciare al proprio programma oppure andarsene, obbedire o venir punito. E non esiste alcuna possibilità di costruire alleanze “riformiste” che possano cambiare i rapporti di forza interni alla Ue, perché ogni riscrittura di trattato prevede l’unanimità tra i membri e in ogni caso il cosiddetto parlamento europeo non ha alcun potere legislativo.

Dunque la posizione sull’Unione Europea diventa una discriminante di fatto, da stabilire a monte di qualsiasi scelta strategica. Devi sapere in ogni istatnte  della tua azione politica, sindacale, sociale, che se anche arrivassi a conquistare la maggioranza politica del tuo paese avresti davanti un muro che ti imporrà scelte contrarie. Con questa macchina infernale non si può trattare, non è fatta per essere messa in discussione ed eventualmente “aggiustata”.

E’ una discriminante che d’ora in poi distinguerà  immediatamente i resti della sinistra “astratta” – che certo critica questo o quell’aspetto dell’austerità ordoliberale, ma si muove dentro il recinto della continuità istituzionale “europeista” – dal movimento, tutto da costruire, che persegue la rottura di quella macchina imperialista come condizione imprescindibile per qualsiasi ipotesi di progresso e giustizia sociale.

Il parlamentare del Movimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista, interviene sapendo benissimo che questa platea è ben diversa da quelle cui è abituato. Ma è anche il promotore, nel suo movimento, dell’apertura di una discussione sulla proposta di Alba euromediterranea e di relazioni privilegiate con i paesi Brics come alternativa possibile a questa Unione Europea che distrugge la democrazia, la libertà dei popoli, l’autonomia dei parlamenti, la possibilità di utilizzare le risorse per obiettivi autodeterminati.

La sua idea è, molto schematicamente, quella di convergere su “le questioni di politica estera”, mantenendo ognuno le sue preferenze per quanto riguarda gli obiettivi e i programmi “interni”. Porta la sua esperienza maturata in Guatemala, in cui ha visto all’opera, nell’area del dollaro, gli stessi meccanismi che sono ora in azione nell’eurozona. Si nota, nel suo ragionamento, l’eco di un’esperienza parlamentare che sta lentamente cambiando alcune caratteristiche del mondo “grillino”, fino a farli interagire con momenti di lotta operaia e popolare – contro gli sfratti, per esempio – in modalità utili al conflitto stesso.

Giorgio Cremaschi, per il Forum Diritti Lavoro, centra il suo contributo sul carattere esplicitamente reazionario e padronale delle politiche dell’Unione Europea, tutte indirizzate a cancellare completamente la contrattazione (non solo quella collettiva), le tutele, le misure di sostegno al reddito (uno dei punti del nuovo memorandum imposto alla Grecia è l’abolizione di alcune “misure umanitarie” prese nel corso di questi sei mesi). Anche lui, come molti altri interventi che lo seguono, invita a non discutere in termini di “nazioni contrapposte” (come fanno i giornali mainstream in questi giorni, che titolano di “Germania contro Grecia”, ecc), ma di “borghesia transnazionale” che si va imponendo come potere oligarchico. 

Proprio per questo Franco Russo, con una grande conoscenza dei trattati europei, rimprovera ad esempio Tsipras di aver sempre parlato in difesa della “sovranità nazionale”, di non aver insomma mai proposto la ribellione greca come possibile esempio per i movimenti dei lavoratori degli altri paesi europei. Contribuendo così, certo involontariamente, al proprio isolamento davanti ai rottweiler dell’Unione. Per combattere un avversario così potente, bisogna del resto conoscere come funziona realmente; altrimenti ci si alimenta di illusioni che svaniscono alla prova del conflitto.

Stefano Zai, di Ross@, inquadra la logica della costruzione europea come frutto dell’ordoliberalismo austro-tedesco (“stato minimo”, garante della competitività interna e del pareggio di bilancio, ecc), combinato con una prospettiva funzionalista del percorso di costruzione (si istituzionalizzano i passaggi possibili, le “buone pratiche” che diventano così obblighi, senza sollevare troppe resistenze nazionali, come sarebbe avvenuto inseguendo una prospettiva federale). Piano piano, insoma, ci si è ritrovati ingabbiati in un sistema che non è un super-stato, che non prevede alcuna legittimazione popolare, ma anzi elimina la possibilità che le lotte sociali abbiano un interlocutore capace di “comprenderne” le istanze. Anche questo fatto, in altri termini, cancella ogni possibile efficacia della prospettiva riformista.

Luciano Vasapollo e Sergio Cesaratto, economisti, evidenziano le assurdità di molte delle “ricette” imposte ai paesi membri della Ue, ed anche lo stretto legame tra “decisioni europee” e ricadute materiali sulle condizioni di vita dei ceti popolari. Un legame che “dal basso” risulta quasi sempre invisibile, difficilissimo da ricostruire, defatigante come cercare di parlare con un fornitore di servizi che utilizza un call center in outsourcing.

Soprattutto, evidenziano la durezza e la permanenza della crisi globale, a sette-otto anni dalla sua esplosione. Solo per fare un esempio, la “crescita” complessiva dell’Unione Europea è stata in questi anni di poco più di 700 miliardi. Una misura minima che è il frutto di un indebitamento esponenziale (pubblico. di impresa, della famiglie) pari a tre volte tanto. Una misura che dà la dimensione esatta di quanto a vuoto giri il “motore” di un’economia continentale che pure è oggi fortemente interconnessa, con una quota crescente di “valore aggiunto” contenuto nelle merci di un paese, ma realizzato nelle componenti prodotte altrove.

La conclusione provvisoria, la “lezione” proveniente dalla vicenda greca, è comunque abbastanza chiara e condivisa. Qualsiasi ipotesi di cambiamento sociale, delle politiche economiche, persino soltanto di riequilibrio sociale e reddituale, presuppone la rottura dell’Unione Europea. Non porsi il problema, pensare di poter  “migliorare” questo o quell’aspetto delle politiche di austerità, conduce esattamente allo stesso bivio su cui si è sfasciato il governo greco e la stessa Syriza. Prima dell’accordo del 13 luglio si poteva ancora onestamente pensare che fosse possibile. Ora non più. 

p. s. Chiediamo scusa agli altri intervenuti, ma abbiamo lavorato in condizioni improbe e non di tutto siamo riusciti a prender nota. Faremo meglio la prossima volta.

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1 Commento


  • Daniele

    OK! Tutto più che giusto, ma non sarebbe ora di uscire dai convegni e fare qualcosa di concreto? Tipo, ad esempio, lanciare uno sciopero generale contro l’Europa? Si perchè a chiacchierare e parlarsi addosso mentre in Grecia ed in Italia si muore di fame ed i fascisti imperversano sono capaci tutti, ma del resto se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare.

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