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“Licenziare per crescere”, l’ultima menzogna degli avvoltoi

Le imprese vogliono licenziare per “rafforzare l’economia”, bloccata dalla crisi.

Anche a prima vista, anche agli occhi di un profano, c’è qualcosa di marcio in questa pretesa. Perché se è vero che un’azienda privata non può tenere occupate più persone di quante ne servano, nell’insieme di un’economia le cose vanno in un altro modo: se la disoccupazione cresce, i consumi calano e si mette in moto una spirale discendente. Le aziende a quel punto licenziano altra gente perché le vendite calano, quindi si vende ancora di meno e così via…

I furbetti annidati nei media di regime ridacchiano, di fronte a questa constatazione: “ma noi compensiamo con le esportazioni!”.

Era quasi  vero, anche se misura largamente insufficiente a compensare la debolezza del mercato interno. Non lo è più.

Finché la cosiddetta “globalizzazione” tirava, questo neo-mercantilismo da poveracci (fai degradare un Paese come l’Italia o un continente, l’Europa, per favorire un pugno di multinazionali) aveva una parvenza di successo, anche se ha per decenni seminato i disastri che ora vengono alla luce.

Ma già prima della pandemia questo schemino teutonico e confindustriale era entrato in profonda crisi, al punto che la “stagnazione” sembrava un destino persino accettabile, visto che l’alternativa era il crollo.

Ma con la pandemia il gioco è saltato completamente. Se tutti sono in crisi, e soprattutto i principali paesi importatori dei “nostri” prodotti (Usa, Russia, ecc), anche la dinamica delle esportazioni subisce gravi colpi.

Se poi si è costretti ad aggiungervi i problemi derivanti dalla “guerra dei dazi” scatenata da Trump (sia verso la Cina che vero l’Europa, anche se i media preferiscono parlare solo della prima), allora lo schema “abbasso i salari qui, per esportare di più altrove” diventa una trappola mortale.

Ma i “nostri” grandi industriali da strapazzo non possono neanche pensare di cambiare pensiero. Il “sistema” che hanno contribuito a creare non offre alternative.

E dunque aprono il fuoco, attraverso i loro media (non ce n’è uno che non sia di proprietà di qualche grande gruppo industriale che si occupa di tutt’altro), perché dall’attuale fase di stallo si esca con un nuovo assetto costruito intorno al comando totale delle imprese sullo Stato e sulla società.

La parola d’ordine “libertà di licenziamento” contiene e nasconde molto altro. A cominciare dall’eliminazione dei contratti nazionali di lavoro (strumento storico di difesa dei lavoratori dipendenti delle piccole aziende, dove il sindacato difficilmente è presente), e quindi dall’abbassamento dei salari reali.

Dal punto di vista dei conti aziendali, in effetti, non si capisce quale sia l’”urgenza” di licenziare lavoratori che sono al momento in cassa integrazione (quasi sempre “in deroga” o “straordinaria” causa Covid-19), di fatto a carico dello Stato. Insomma, quelli stipendi li paga per il momento qualcun altro…

Ma se il motivo dell’”urgenza” non è questo, allora bisogna capire le dinamiche reali, invece che quelle “narrate”.

Un’impresa può trovare conveniente licenziare un certo numero di lavoratori in cig in un solo caso: quando prevede di poter aumentare la produzione nei prossimi mesi (previsione relativamente facile, dopo mesi di rallentamento o addirittura blocco).

Qual è il calcolo? Togliersi dalle spese future lavoratori con salari e diritti contrattuali normali e sostituirli con precari (a termine, in collaborazione, ecc), con salari molto più bassi e soprattutto senza alcun diritto né rappresentanza sindacale (persino quella evanescente della “triplice concertativa”!).

Una massa straordinaria di disoccupati, infatti crea una situazione il cui il “valore di mercato” della forza-lavoro si abbassa decisamente. Se non sai come vivere, accetti qualsiasi proposta (e ne girano, dicevamo qualche settimana fa, alcune che “offrono” 380 euro al mese per 65 ore di lavoro settimanale!) “competendo” con i tuoi simili al prezzo più basso.

Però, certamente, dire che questo è il primo o uno degli obbiettivi della campagna “libertà di licenziare” è alquanto impopolare. Meglio chiamare al lavoro i “comunicatori” assunti con contratto giornalistico perché confezionino una “narrazione” più suadente.

Vi offriamo qui un esempio, tratto da IlSole24Ore, casualmente organo di Confindustria e dunque voce diretta del neo presidente carlo Bonomi:

Il binomio sussidi-divieti che ha caratterizzato le politiche del lavoro post-pandemia ha spento sul nascere un possibile incendio occupazionale, ma non può diventare la linea guida per progettare l’uscita dall’emergenza, in quanto irrigidisce troppo il mercato del lavoro e danneggia i soggetti più deboli (i giovani, le persone in cerca di una ricollocazione, i lavoratori flessibili e i precari).

Capito? Vogliono licenziarci “per il nostro bene”, per “non danneggiarci”… Un mercato del lavoro “rigido”, per capirci, è quello dove uno chiamato a lavorare “pretende” di essere pagato il giusto.

Si vede che uno come Tito Boeri era stato troppo tecnico e “freddo”, spiegando che in realtà licenziare avrebbe favorito “maggiore velocità nella ri-qualificazione” dei neo-disoccupati…

Questi sono i signori che decidono delle nostre vite. E non se ne andranno mai volontariamente… Dunque, è il caso di mettersi in movimento.

P.s. Vedi anche, per altri miti dello stesso genere; https://altreconomia.it/lavoro-ricerca-sfata-mito-flessibilita/

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