Pochi giorni fa il Ministro del lavoro Nunzia Catalfo ha espresso parole di soddisfazione per l’approvazione da parte della Camera dei deputati del Decreto agosto, il pacchetto interventi di 25 miliardi “per fornire ulteriore protezione alla nostra economia e ridare slancio al Paese in questa delicata fase di ripartenza”.
“La parte più cospicua – si legge nella dichiarazione – delle risorse stanziate, circa 12 miliardi di euro, serve a finanziare gli interventi a sostegno di lavoratori, imprese e categorie fragili”.
Già qui emerge la natura ideologica del discorso rilasciato dalla Catalfo, che mette sullo stesso piano, traducendo per fare un esempio pratico dalle categorie generali, gli Agnelli-Elkann (imprese), un operaio dell’Ilva (lavoratori) e un insegnante vicino alla pensione (categorie fragili), soprassedendo sulla specifica ripartizione degli aiuti previsti, decisiva quando si tratta di figure sociali così disomogenee.
“Fra queste vale la pena ricordare la decontribuzione al 100% per 6 mesi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, la proroga di 18 settimane della cassa integrazione (con le prime 9 gratuite per tutti e le altre 9 con un’aliquota variabile in base alla percentuale di calo del fatturato), nonché lo sgravio contributivo al 100% per 4 mesi per le imprese che fanno rientrare i lavoratori in azienda dalla cassa integrazione”.
Proseguendo, la situazione non migliora affatto, anzi rivela – a dispetto di un Ministero che in alcune occasioni aveva segnato una qualche discontinuità con gli inquilini precedenti – l’adeguamento della “classe politica a 5stelle” al pensiero (e all’azione) dominante, quello che assegna alle imprese il compito di modellare l’organizzazione sociale, basandosi sulla competizione.
Se la “buona notizia” del decreto è infatti l’ennesima decontribuzione del lavoro – che è una bella formuletta per dire che le imprese pagano meno salario indiretto e differito a lavoratori e lavoratrici – il filo rosso delle politiche sul lavoro indirizzate da Maastricht nel 1992, inaugurate nel paese dal Pacchetto Treu (1997) e passate tramite la Legge Biagi (2003) o il Jobs Act (2014-15) è intatto. E pure robusto.
Trenta anni (almeno) di tagli al salario sociale di classe per mantenere livelli di profitto “accettabili per lor signori i padroni”, tagli che alla lunga deprimono i consumi e dunque la massa di profitto (per il tasso, ossia la percentuale, ci pensa la contraddizione principale di questo modello produttivo…) per le stesse imprese, che delocalizzano (chi può, le altre chiudono e basta) e lasciano in eredità alle nuove generazioni il secondo peggior mercato del lavoro dell’Unione europea a 28 Stati, davanti alla sola Grecia.
Come se non bastasse, questo modello si è già rivelato fallimentare proprio nel momento di maggior bisogno, ossia quando la pandemia ha colpito duro le economie e le comunità praticamente del pianeta intero.
La serie di Dpcm sfornati dal Conte bis avevano già sancito l’inadeguatezza della classe dirigente attuale rispetto alla situazione in cui si trova a navigare – a vista, purtroppo per noi. L’ultimo prevede misure tanto “soft” quanto sconclusionate che penalizzano enormemente alcune situazioni economico-sociali a discapito di altre, senza nessun impianto coerente che faccia quello che dovrebbe essere chiamato a fare: contenere l’espansione dei contagi.
Al contrario, guai a toccare la produzione industriale, essenziale o meno che sia, pena l’intromissione della Confindustria nella governance del paese, come già avvenuto pesantemente all’inizio della prima ondata lo scorso marzo, con gli effetti criminali che il lettore di questo giornale conosce bene.
Sul settore turistico, invece, bastonate a destra e a manca, altro che “oro del paese” come affermava Salvini (non ne azzecca più una); i primi sacrificabili sono tutti lì, dai lavoratori del settore ai piccoli commercianti, i più massacrati dalla mondializzazione della logica di mercato (ossia, la “globalizzazione”).
Ma la debolezza di un mercato del lavoro così configurato era stata ampiamente documentata già in questi mesi, in ultimo dal report trimestrale (aggiornato al 23 settembre) rilasciato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, Ilo nell’acronimo in inglese) circa gli effetti del Covid-19 proprio sul “mondo del lavoro”.
Le stime, raccolte per macroregioni, sono imbarazzanti per il Sud-Europa, con perdite in termini di ore lavorate totali – per il secondo e terzo trimestre del 2020 – minori solo all’America latina e all’Asia meridionale.
La logica che sta muovendo il paese, dalle istituzioni governative ai sindacati concertativi, passando per i maggiori istituti di ricerca, è sempre la stessa: quel produci, consuma (magari a casa), crepa (se necessario da solo) che ci ricorda, oggi più che mai, l’essenza della lotta di classe. Quella combattuta “dall’alto”, almeno.
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