Il Cda di Atlantia, la holding guidata dalla famiglia Benetton, ha rifiutato l’offerta preliminare della cordata guidata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) per l’88% di Autostrade per l’Italia (Aspi).
La “famiglia del maglioncino”, che detiene poco più del 30% delle azioni di Atlantia tramite la controllata Edizione, rispedisce l’offerta al mittente perché “non ancora conforme e idonea ad assicurare l’adeguata valorizzazione di mercato della partecipazione”.
Scordatevi i 43 morti, le minacce di revoca, le ciarle sulla nazionalizzazione, i disagi agli abitanti successivi (e in aggiunta) alla tragedia, le parole dei politici di questa maledetta Seconda Repubblica, anche di quelli che in queste ore stanno blaterando della “svendita agli stranieri” – come se gli italianissimi Benetton avessero fatto il loro dovere…
La logica di come finirà il caso Autostrade è tutta nel virgolettato: è il “libero mercato” che detta le regole, allo stato attuale la società vale più di quanto offerto, non c’è spazio per l’etica politica, ma solo per la remunerazione dell’investimento, il quale val bene qualche funerale (qui come in Patagonia, o in Bangladesh ecc.).
Diciamolo chiaramente: stando al modello sociale e produttivo in cui siamo immersi, nella risposta dei Benetton non c’è nulla di illogico, piuttosto c’è racchiuso tutto il tanfo di questa società, di chi ci prospera e di chi fa di tutto per riprodurla mantenendola uguale a sé stessa – società di cui i Benetton ne sono una fedele rappresentazione.
I fatti sono che la Cassa ha presentato un’offerta non vincolante di circa 9 miliardi di euro per la parte di Aspi detenuta da Atlantia, quotando così la società a circa 10 miliardi.
Secondo Atlantia però mancherebbe almeno un miliardo al valore effettivo della società, e così ha invitato la cordata guidata da via Goito, composta anche dal fondo statunitense Blackstone e da quello australiano Macquaire, a fare un’altra proposta entro il 27 ottobre, giorno precedente al Cda della holding.
Come se non bastasse, i Benetton insistono affinché al computo finale non venga applicato lo “sconto manleva”, ossia il calcolo (allo stato attuale ancora approssimativo) dei futuri risarcimenti che la nuova società dovrà versare come risarcimento alla città di Genova. Per capire, prime stime di questa quota (il compito è affidato a UniCredit e Citi Group) varierebbero tra i 1-2 miliardi e i 7-8 miliardi (Affari italiani).
In questo quadro, pressioni arrivano anche dal fondo britannico The Children’s Investment Fund Management (Tci), secondo azionista di Atlantia che in questi giorni ha incrementato la propria quota al 10%, supportando, sentendo profumo d’affari, la richiesta dei Benetton di alzare la valutazione di Aspi.
Tutto qui. Nient’altro che una normale operazione di mercato resa politicamente necessaria da un fattore esterno (il disastro del ponte Morandi), ma senza che questo fattore influenzi minimamente il modo di pensare e di funzionare che ha portato alla tragedia stessa, quel modo che risponde al dogma del profitto, “a tutti i costi”.
E in questi termini nulla di più potrebbe fare la Cdp, da alcuni etichettata come lo spauracchio della “nuova Iri”, pronta a far calare l’ombra lunga dell’intervento statale sulla libera competizione.
Ma Cdp, come affermava lo scorso giugno dalle pagine de Il Foglio l’Ad, il bocconiano Fabrizio Palermo, “è un soggetto privato che opera secondo logiche di mercato e che per ogni investimento deve rispondere a quelle logiche”, rispettando dunque “il dividendo come prerogativa degli azionisti”, che per l’occasione sono “il Mef e le fondazioni bancarie”, ma non sarebbe diverso se fossero, per esempio, i Benetton.
La vendita di Autostrade sarà risolta nei meandri del “libero mercato”, ossia lì dove la politica, che altro non è che la messa in moto di interessi di classe, è stata messa volutamente in un angolo.
In questo, politici e imprenditori vanno davvero a braccetto. A spese del popolo.
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