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Contoterzisti per sempre? Non è un destino…

Niente resta fermo, in tempi di calamità inattese. E come sempre i movimenti dell’economia, i riposizionamenti delle aziende, il ridisegno delle filiere produttive, fanno da base per la strutturazione degli interessi più forti, e dunque da baricentro anche per la “politica”. Specie in una fase storica in cui quest’ultima viene ridotta a pura amministrazione.

Ben due giornali economici, stamattina, impegnano alcune delle loro migliori firme per dare conto delle “nuove catene del valore” tra Italia e Germania.

Vediamo un po’ di numeri, anche non sono neanche questi chiarificatori precisi, come vedremo.

L’interscambio commerciale tra i due paesi è ovviamente calato (-4,8%), ma molto meno di quanto non sia accaduto con altri partner europei: Olanda -9%, Francia -15, Austria -9, Repubblica Ceca -10, Spagna -11).

Inevitabile, a causa della pandemia, che ha rallentato molte attività. Ma non tutte, come ben sappiamo, visto che in alcuni settori – come la siderurgia – le esportazioni italiane verso Berlino sono aumentate addirittura del 51,2%. Guardate dove sono le principali fabbriche siderurgiche in Italia, sovrapponete la mappa dei centri con maggiore incidenza dei contagi, e avrete una spiegazione semplice. Le fabbriche non si sono mai fermate, anzi, hanno fatto gli straordinari…

Nonostante i lockdown sia qui che in Germania, che hanno fatto crollare i consumi, anche l’agroalimentare è cresciuto, sebbene solo del 5,7%. Ed anche il settore farmaceutico è avanzato dell’1%.

Ancora più esplicita la tendenza che emerge dall’analisi della Camera di commercio Italo-Germanica (Ahk Italien), sintetizzate così da Milano Finanza. “Le imprese tedesche sono a caccia di fornitori in Italia per accorciare le catene produttive, indebolite da anni di guerra commerciale e spezzate dalla crisi pandemica. La ricollocazione nell’Unione Europea delle filiere dell’industria teutonica è in corso da qualche tempo, ma il movimento di rientro ha preso velocità nel corso degli ultimi mesi del 2020”.

Il Nord italiano è da decenni diventata una subfornitura tedesca, ma ora questa condizione strutturale è sottoposta a una ristrutturazione generale. Non si tratta più solo di consolidare business che, nel frattempo, vengono messi in discussione dall’evoluzione tecnologica o dall’emergere di nuovi concorrenti, ma di agganciare la riconversione di alcuni settori-chiave.

La pandemia ha mostrato che bisogna essere pronti a rimodulare rapidamente le catene di approvvigionamento. In questo contesto le imprese italiane e tedesche devono cogliere appieno l’accelerazione delle trasformazioni aziendali che si è verificata nell’ultimo anno e ripartire insieme, restare indispensabili le une per le altre e stare al passo con i mercati internazionali”, spiega Jorg Buck, consigliere delegato dell’Ahk Italien.

In particolare, “i fornitori italiani debbono mantenere il passo della trasformazione in atto… prima di tutto nell’automotive, al centro di una svolta elettrica, che riguarda anche, se non soprattutto, la filiera [ossia i subfornitori, ndr]”.

Quel poco di industria rimasta in Italia dopo la quasi scomparsa della Fiat (i cui marchi pesano ora in Stellantis appena per il 10%) deve insomma strategicamente collegarsi con quella tedesca, in posizione logicamente subordinata e dipendente. Contoterzisti per sempre, con tutto quel che ne consegue…

Con la solita arguzia, IlSole24Ore fa notare che “i due sistemi devono lavorare insieme, nella fase di ripresa, per concertare il nuovo sviluppo disegnato dai piani del Recovery Fund”. C’è insomma un “piano di sviluppo europeo”, orientato per forza di cose (peso industriale specifico) dalle multinazionali tedesche; e quei fondi – prestiti che andranno comunque ripagati – saranno concessi a discrezione soltanto se saranno utilizzati a quello scopo, sotto rigido controllo della Commissione guidata da Ursula von der Leyen.

Questa la realtà dei fatti. Poi, certo, ci sono anche le illusioni più o meno innocenti. Non sembrano tali, per esempio, quella propalate da alcuni ministri del “governo 2”, quelli “non tecnici”, che straparlano del Recovery Fund come della manna dal cielo, disponibile a volontà. Più risibili, invece, i “sogni di sinistra”, che si baloccano con quello che si potrebbe fare con quei fondi…

La realtà disegnata dalla ferrea “necessità economica” va insomma in direzione di una più marcata dipendenza strategica della capacità produttiva italiana da quella tedesca. Il che si riverbera, inevitabilmente, anche sul “peso politico” dei governi italiani in confronto a quello di Berlino.

E se la dipendenza può sembrare un buon affare al singolo produttore pronto ad acchiappare al volo l’occasione per sé, non altrettanto sembra si possa dire dal punto di vista di classe e dell’intero paese. La stessa necessità di “accorciare le filiere” che oggi può favorire – forse – il Nord italiano, domani potrà prendere altre direzioni. A discrezione ed interesse del capo-filiera.

Non volete ascoltare noi? E allora leggete la preoccupazione di un “normale imprenditore”: “Il problema non è l’export italiano, ma dove viene realizzata la massa del profitto. In quale segmento della catena di valore. E come esso valorizza il capitale manifatturiero.

Bisognerebbe avere il dato del margine operativo e netto dei vari segmenti. Per esempio: il segmento A vende al segmento B che vende al segmento C.

Se il margine netto è quasi tutto nella realizzazione della vendita, il segmento A [il subfornitore, ndr] partecipa ad una minima parte del plusvalore in percentuale.

Temo che il margine netto in quota di valore stia quasi tutto in Germania. In questo senso siamo una fabbrica che partecipa ad una valorizzazione inferiore a quella teorica”.

Chiaro? O serve la traduzione? Chi realizza la “vendita finale” è il capo-filiera. E’ lui che determina gli eventuali margini di profitto dei fornitori e può giocare – entro i limiti della domanda e dell’offerta – con il prezzo finale del prodotto. I subfornitori devono solo ringraziare di poter partecipare al business finché sarà possibile e pregare che il capofiliera non stia seguendo la strategia sbagliata (com’è altamente probabile).

Come lavoratori, pensionati, studenti, e comunisti di questo angolo del mondo, possiamo permetterci un futuro così?

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3 Commenti


  • giorgino

    Come lavoratori, pensionati, studenti, e comunisti di questo angolo del mondo, possiamo permetterci un futuro così? Certo che no, ma non si tratta solo di diversificare i rapporti economici, e meglio ancora di impostare una politica industriale mancante da decenni. Queste sono cose necessarie, ma dei comunisti che guardassero solo a questo, starebbero a riprendere le bandiere borghesi “lasciate cadere dalla indegna borghesia italiana”. Non vi sembra un po’ troppo togliattiano ? Non si resterebbe comunque nel sistema della concorrenza tra stati capitalistici ? Questa, peraltro, impone i sacrifici “se no i concorrenti ci scalzano” ! Sembra che non vi interroghiate nemmeno sulla possibilità di costruire delle lotte a livello europeo, anche con i lavoratori tedeschi. Forse date per scontato che i lavoratori tedeschi, trovandosi al vertice delle filiere produttive, guidati dalla loro borghesia nazionale, ne condividano per questo i vantaggi, e mai sarebbero disposti a lottare per difendere degli standard minimi o migliorarli di concerto con chi lavora in Italia e nelle altre nazioni europee .
    In realtà, i mini-jobs precari ed a 500 euro al mese in germania sono piu diffusi che in italia ( l’apripista in europa fu Gehrard Schroeder), i redditi in germania sono calati drasticamente come in italia e non solo tra gli operai, ma anche nel mittelschicht ovvero nel ceto medio ( se no come spieghereste AFD? ), da anni tanti pensionati raccolgono le bottiglie di plastica nei bidoni della spazzatura e li portano ai supermercati per incassare qualche spicciolo. Le lotte in realtà non mancano e sono piu dure che in italia, basta non guardare solo ai sindacati DGB o IG Metall (equivalenti di Cgil e Fiom). Lotte mirabili e radicali sono state sostenute negli ultimi anni dai ferrovieri di deutsche bahn, che in molte città hanno dimostrato con gli studenti che si opponevano alle riforma dell’università (riforma che alcuni lander hanno ridimensionato), nella regione di amburgo forme di organizzazione e di lotta molto avanzate sono state sviluppate dai giovani matalmeccanici (anche con visione politica, spesso pendolari dalla ex DDR, pure li il capitale ha segmentato tra i giovani ed anziani meno precari). Lenin diceva che per combattere davvero il capitale bisogna mettersi sul terreno più avanzato di questo stesso, non sarebbe il caso di farci un pensierino? Molti in italia pensano che i lavoratori tedeschi se la passino chissache bene grazie all’euro o ai vertici tedeschi di tante filiere (forse, ma solo un po, solo gli strati apicali negli stabilimenti di punta, gli equivalenti degli strati operai piu qualificati della fincantieri o di leonardo), d’altronde in germania alcuni pensano che in italia o in grecia la gente canti e balli tutto il giorno (paesi del caldo sud) e poi pretenda di vivere con i soldi che dovrebbe tirar fuori la germania, mettendo in comune il debito pubblico con i vari stati europei : sono queste delle ideologie che vengono alimentate ad arte dalle forze borghesi, in italia lega, 5 stelle, gli stessi partiti “responsabili” che propongono la germania come modello (in germania pensiamo alla propaganda Cdu Afd). Il debito pubblico, in italia, ed anche in germania, ed in tutta europa, lo pagano esclusivamente i proletari, la borghesia italiana si appropria di una quota parte di questa rendita per il tramite della finanza (anche sulla pelle dei proletari tedeschi), accettando di essere subordinata alla borghesia tedesca in quanto sa che da sola non portebbe mai costruire un polo imperialistico all’altezza di Usa o Cina, ed è per la medesima ragione che il capitale tedesco scende a patti con le borghesie continentali (anche cosi si spiega il recovery found e similia). Demistificare le ideologie ed iniziare a porre le basi di azioni comuni dei lavoratori a livello europeo no ? E allora perchè una sorta di nuovo internazionalismo vi sembra possibile e lo esaltate quando si parla ad esempio dei gilet gialli, con le propaggini italiane o tedesche? E ci sarebbe tanto altro da dire…


    • Redazione Contropiano

      Togliatti non c’entra un fico secco, e la competizione capitalistica nemmeno… QUalsiasi rivoluzione trasforma quel che c’è, pianificando uno sviluppo differente. Dunque non è la stessa cosa trovarsi senza una struttura produttiva in grado di stare in piedi oppure con una quasi decente. L’indipendenza dipende molto dalla possibilità o meno di dar da mangiare (e contorno) a un popolo. Altrimenti è a forte rischio. L'”azione comune dei lavoratori a livello europeo” sarebbe una grande cosa, se non ci fosse il “piccolo” problema di ritmi di sviluppo – e dunque salariali, di potere d’acquisto, ecc – che ne favoriscono quotidianamente la divisione. Si possono indubbiamente realizzare alcune lotte comuni, internazionali, ma fin qui molto limitatamente. Dunque introdurre una variante quasi utopistica in luogo dell'”analisi concreta della situazione concreta” non sembra affatto risolutivo…


  • giorgino

    Ormai i deve parlare di ritmi di impoverimento, e le strutture produttive capitalistiche non vanno “salvaguardate”, ma gestite nell’interesse dei lavoratori, su questo terreno i diversi livelli salariali etc non sono di per sé un ostacolo alle lotte comuni, ne al mantenimento o sviluppo delle strutture produttive. Se aspettassimo che fosse il capitale a ricomporre l’unità di classe, staremmo freschi (anche tra nord e sud italia, allora). I fichi, secchi o meno, sembra li usiate come surrogato dell’analisi concreta (dove sarebbe la vostra, a supporto di quanto dite?). Ecco uno dei tanti esempi possibili : in Germania la sinistra riconosce unanimemente che il modello export oriented va spostato verso i consumi interni, non vi sembra una possibile convergenza con le esigenze italiane, visto il vantaggio che l’euro da all’economia tedesca? Secondo me mancate di approfondimento, anche circa i commenti dei lettori, infatti: “non si tratta solo di diversificare i rapporti economici, e meglio ancora di impostare una politica industriale mancante da decenni. Queste sono cose necessarie, ma dei comunisti che guardassero solo a questo, starebbero a riprendere le bandiere borghesi “lasciate cadere dalla indegna borghesia italiana”

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