Per qualcuno la pandemia non è stata affatto una disgrazia, anzi. A maggio, l’indice IHS Markit sulle Pmi del manifatturiero dell’Italia ha raggiunto i 62,3 punti, il nuovo massimo storico, in rialzo rispetto al 60,7 di aprile e sopra la soglia di 62 punti.
Viene così confermato che mentre gli imprenditori recitavano il copione del “chiagne e fotti”, la produzione manufatteriera non ha risentito granchè della pandemia di Covid come avvenuto in altri settori.
La ripresa del manifatturiero italiano a maggio “non ha mostrato segnali di rallentamento, con i dati Pmi che hanno continuato a riportare un nuovo primato positivo dello stato di salute del settore grazie alle vendite crescenti e all’aumento quasi record del tasso di crescita della produzione“, commenta Lewis Cooper, economista di Ihs Markit sulle pagine di Italia Oggi.
Le imprese manifatturiere “hanno inoltre continuato ad aggiungere personale e al ritmo maggiore dall’inizio della raccolta dati, ovvero nel 1997, in parte a causa della piu’ forte pressione sulla capacita’ produttiva della serie storica“.
“Le pressioni inflazionistiche hanno continuato a destare le preoccupazioni maggiori” per il manifatturiero italiano, “con i prezzi di acquisto che hanno continuato ad aumentare, e con l’incremento conseguente dei prezzi medi di vendita a livelli record da parte delle aziende“, spiega per l’economista di IHS Markit.
I costi più onerosi “sono scaturiti principalmente dalla carenza di materiali e dai ritardi delle consegne“, con “i tempi medi di consegna peggiorati ancora una volta ad un livello senza precedenti“, sottolinea Cooper.
Nel complesso, “a metà del secondo trimestre, il settore ha riportato una prestazione strepitosa dando quasi inesistenti segnali di rallentamento della crescita“, spiega l’economista.
Ad aprile intanto, secondo l’Istat, si registra una crescita dell’occupazione che porta a un incremento di oltre 120mila occupati rispetto a gennaio 2021. L’aumento coinvolge entrambe le componenti di genere ma si concentra tra i dipendenti con contratti a termine e non a tempo indeterminato.
Ma rispetto a febbraio 2020, mese precedente a quello di inizio della pandemia, gli occupati sono però oltre 800mila in meno e il tasso di occupazione è più basso di quasi 2 punti percentuali.
Dopo il rallentamento dell’occupazione registrato a marzo, rileva l’istituto di statistica, riprende la crescita della disoccupazione e prosegue il calo dell’inattività: i tassi risultano rispettivamente di 1 e 1,3 punti superiori a quelli registrati prima della pandemia.
Resta infine il nodo delle retribuzioni di chi lavora. In questi giorni stiamo assistendo al piagnisteo di esercenti e prenditori che lamentano la scarsa disponibilità di manodopera rispetto alle proprie offerte di lavoro.
La causa, secondo questi specialisti del “chiagni e fotti”, è la concorrenza del Reddito di Cittadinanza rispetto alle basse e bassissime retribuzioni che gli imprenditori mettono a disposizione.
A nostro avviso una “concorrenza virtuosa” e doverosa, che da un lato scoperchia la vergogna delle vergognose retribuzioni offerte in cambio di orari di lavoro lunghissimi, dall’altro significa che un meccanismo di reddito sociale, per quanto imperfetto, sta agendo proprio come dovrebbe agire: spezzare il ricatto dei bassi e bassissimi salari.
Un ricatto che l’introduzione del salario minimo per legge potrebbe indebolire ancora di più (per estirparlo non bastano le leggi), ma forse proprio per questo il meccanismo del salario minimo è stato completamente rimosso dal Recovery Fund.
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