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Le “Criptovalute” fanno incetta di schede video e di energia

Questi ultimi mesi hanno visto l’improvvisa scomparsa dai mercati delle più performanti schede video usate dai gamers e dagli appassionati di video grafica. Quelle rimaste ancora reperibili hanno visto i prezzi triplicati.

Non si tratta dell’effetto di una passione generalizzata per i giochi per computer o per il video digitale ma siamo difronte all’ennesimo giocattolo virtuale del capitalismo globalizzato tecno-finanziario.

Sono anni che si parla di criptovalute, divenute un nuovo terreno di scontro fra interessi finanziari mondiali, ma gli ultimi mesi, grazie anche ai tweet sul tema di Elon Musk, sono oggetto di un vero e proprio boom.

Sono entrate in campo, oltre a Bitcoin, una miriade di progetti “blockchain” alternativi (definiti per questo in gergo “altcoin”), fra i quali Ethereum una criptovaluta che ha visto recentemente un incremento esponenziale.

Questa crescita del quadro complessivo delle criptovalute è dovuta al fatto che malgrado Bitcoin sia la blockchain più conosciuta e abbia il maggior volume di investimenti, la sua capacità è notoriamente limitata, il che la rende inadatta alle applicazioni del mercato di massa e alle microtransazioni.

Per avere un’idea dei progetti di criptovaluta e delle relative capitalizzazioni di mercato è esplicativo il sito https://coinmarketcap.com

Questa proliferazione delle criptovalute ha reso necessario l’impiego di ulteriore potenza di calcolo nella cosiddetta fase di “mining”.

I nuovi “minatori” virtuali di criptovaluta sono i protagonisti di questa incetta di schede video che trovano più efficiente ed economico processare le transazioni attraverso la potenza di calcolo delle GPU quindi dei processori grafici contenuti nelle schede video AMD e Nvidia.

Un tale Simon Byrne è riuscito a realizzare un telaio in grado di rendere possibile il funzionamento di 78 schede grafiche contemporaneamente aprendo la strada alla possibilità di creare delle server farm dedicate in varie parti del mondo, prevalentemente Stati Uniti (Nevada), Vietnam, Ucraina, Russia e Cina dove i costi energetici sono più contenuti.

Uno dei punti deboli delle criptovalute e della loro tecnologia è proprio nel costo, anche energetico, delle server farm che un recente sviluppo tecnologico nei protocolli è riuscito in parte a contenere.

A questa incetta di schede VGA si sono sovrapposti gli effetti del lockdown e la carenza di materie prime, come il silicio, già ampliamente saccheggiate da un mercato dell’elettronica e della digitalizzazione a crescita esponenziale e con un ciclo di vita ridottissimo.

Un ottimo biglietto da visita per green economy e le tecnologie sostenibili sulle quali si incentra la ristrutturazione capitalista “Industry 4.0”. Ma a quale attività contribuiscono i “miners” che sostanzialmente sono “cercatori d’oro” virtuali?

Il processo di “mining” serve a confermare le transazioni virtuali che devono essere univoche e sicure. Attualmente avviene secondo due protocolli PoW (Proof-of-Work), quello che utilizza Bitcoin, e li recente PoS (Proof of Stake) che stanno utilizzando alcune criptovalute di seconda generazione.

Nel PoW (Proof-of-Work) per verificare la veridicità di una avvenuta transazione di criptovaluta i “miners” devono risolvere un problema matematico complesso, il primo a risolverlo ottiene un premio, quindi un compenso in criptovaluta.

Con questa tecnologia è essenziale quindi la potenza di calcolo a fronte della quale corrisponde maggiore probabilità di validare per primo la transazione in sospeso aggiudicandosi la ricompensa di validazione del blocco.

Il PoW (Proof-of-Work) ha quindi elevatissimi costi energetici e di hardware dedicato e, a fronte del costante aumento della complessità di validazione, tende a una rapida obsolescenza.

La tecnologia PoS (Proof of Stake), invece, assegna l’attività in modo pseudocasuale ai “miners” dei nodi in possesso del maggior numero di monete/token.

Dato che il loro scopo è validare una transazione si presuppone che i “miners” maggiormente esposti economicamente abbiano più interesse a garantire l’integrità del sistema.

Anziché premiati, i “miners” ricevono una commissione dell’avvenuta transazione.
Al contrario del sistema precedente questa tecnologia concentra le transazioni fra i “miners” con gli investimenti più elevati ed evita una competizione per ogni transazione da certificare diminuendo l’esigenza di postazioni di calcolo di estrema potenza e la ridondanza dei processi.

Quindi in questo scenario il protocollo PoS (Proof of Stake) ha minori necessità computazionali e costituisce il sistema economicamente più “sostenibile”.

Ma comunque sia si stima che l’energia necessaria al funzionamento delle reti di blockchain potrebbe alimentare milioni di abitazioni negli Stati Uniti. Il “Centre of Alternative Finance” dell’Università di Cambridge a fronte dei consumi attuali ha stimato il consumo di energia della sola rete Bitcoin nell’anno 2021 oltre i 115TWh, superiore a quello dell’intera Olanda.

È fondamentalmente per questo motivo che la criptovaluta con la seconda capitalizzazione di mercato attualmente più alta, Ethereum, sta cercando di passare da PoW a PoS.

Altre criptovalute presenti nella Top 20 in termini di capitalizzazione come EOS, Tezos e TRON, stanno già utilizzando con successo PoS.

Il cuore dell’informatizzazione globale proposta dalla nuova ristrutturazione capitalista (fatto da intelligenze artificiali, big data, criptovalute, internet of things, domotica, internet of energy, servizi cloud, smart city,  etc.) passa per un enorme consumo di energia e per l’ennesimo saccheggio scellerato delle materie prime di cui la scomparsa delle schede video dal mercato non è che un piccolo sintomo.

Il quesito che dovremmo porci è quale sia la reale utilità sociale di queste tecnologie a fronte degli enormi consumi che rappresentano e quanto non siano solo un nuovo territorio di moltiplicazione dei profitti e della speculazione.

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