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Lo spezzatino domenicale della Serie A in streaming

Dopo le prime indiscrezioni dei giorni scorsi, è da poco arrivata l’ufficialità sul nuovo accordo fra Lega Serie A e fornitori di servizi televisivi a tema sportivo (DAZN, SKY etc.).

La questione in esame sarebbe di riprogrammare la calendarizzazione standard delle partite di calcio con un nuovo formato spezzatino, più di quanto non lo sia diventato negli anni. Dal caos attuale si arriverà al caos supremo, allo spezzettamento definitivo: in ogni turno di dieci partite queste saranno giocate in dieci orari diversi.

La proposta ha ricevuto tredici voti a favore su diciannove, ma alcuni dei presidenti votanti hanno chiesto di poter aggiornare l’assemblea con una nuova votazione lunedì prossimo.

A regime si ipotizza la seguente spartizione: quattro partite da giocare e trasmettere di sabato, alle ore 14:30, 16:30, 18:30 e il classico anticipo di grido delle 20:45; cinque partite da giocare di domenica negli stessi orari del sabato più l’ormai abituale lunch match delle 12:30; una partita da giocare lunedì alle 20:45.

A motivare questa scelta si ritiene ci sia il nuovo accordo triennale fra club italiani e aziende televisive, che prevede che tutte e dieci le partite settimanali di Serie A vengano trasmesse dal servizio streaming di DAZN, con il servizio satellitare SKY che potrà avvalersi del diritto di trasmetterne solo tre in contemporanea.

Tuttavia, DAZN, avamposto del capitalismo delle piattaforme nel business del calcio, fiore all’occhiello della quarta rivoluzione industriale che sbarca nel mondo del pallone, ha più di qualche problemino a far vedere le partite agli abbonati: alta latenza, interruzioni, bassa qualità video…

Insomma, l’azienda non riuscirebbe a garantire un servizio di qualità ai suoi utenti; sta quindi con ogni probabilità spingendo la Lega Serie A a spezzettare ulteriormente il programma settimanale per garantirsi dal rischio di probabili sovraccarichi dei server: meno partite in contemporanea significa meno banda occupata per il segnale in uscita, e quindi migliore performance per singola partita trasmessa.

La vicenda scopre una serie di nodi che il capitalismo delle piattaforme streaming fa venire al pettine. È un capitalismo nato dalla crisi, che si vanta di esserlo, che rinnova le modalità di accumulazione, che riconfigura la società dello spettacolo per come la conosciamo.

Lo spettacolo, ricorda Debord, è qualcosa che deve manifestarsi istantaneamente e immediatamente scomparire. Mercificare lo spettacolo è la figura più limpida del bisogno di obsolescenza che ha il capitale per riprodursi, diventando così il propulsore di una forma centrale dello sviluppo capitalistico, che acidamente Debord chiamava “la produzione incessante di banalità”.

Pensate alla fantastica capacità di marketing di Netflix: ognuno nel mondo può vedere istantaneamente e contemporaneamente l’ultimo episodio (anzi, l’ultima stagione) di Peaky Blinders, un’istantaneità che viene agevolmente monetizzata dalla sottoscrizione mensile che stacca il consumatore dal porsi il problema di quanto stia effettivamente “consumando”: paga e vede quello che gli pare, e gli va bene così. Soprattutto paga puntualmente.

Un modo di consumo su misura dell’esigenza della grande azienda di contenere il rischio di volatilità del mercato, che generalmente si scarica su una platea più o meno vasta di produttori (e su uno sfruttamento sempre più sregolato dei lavoratori del settore).

Il modello Netflix è obiettivamente un grande traguardo della trasformazione postfordista, ma un traguardo che appena si pone l’obiettivo di conquistare il mercato dello sport mostra molti limiti e contraddizioni, e che proprio per l’essere un grande affare alla frontiera del modo di produzione e consumo riteniamo vada approfondito in ogni occasione di aggiornamento. Veniamo quindi ai nodi venuti al pettine.

L’aumento dei costi e “l’accumulazione per spoliazione”

Agli abbonati a DAZN, come il sottoscritto fino a pochi giorni fa, è intempestivamente arrivata la comunicazione che il servizio, dal costo finora di 10€ al mese, salirà a 30€, comportando che il costo complessivo per vedere Serie A e competizioni europee (che saranno comunque trasmesse dalle tv a pagamento) salirà da 40€ a probabilmente 60€.

Il tutto, si badi bene, con un’importante novità: DAZN non offre un servizio personalizzato, per cui se prima al costo di 10€ ti vedevi un po’ di Serie A, un po’ di rugby, un po’ di pugilato, un po’ di freccette e di biliardo – e magari eri interessato a vedere soprattutto rugby, pugilato, freccette e biliardo – da settembre ti costerà 20€ in più perché pagherai per delle partite di Serie A in più. Anche se la Serie A non ti interessa.

Ora, si sa che uno dei principali motori della fase ultima di globalizzazione, accanto all’internazionalizzazione delle imprese e delle istituzioni di governo e governance, all’apertura dei mercati e alle nuove modalità di produzione, è stato sicuramente lo sviluppo della tecnologia dell’informazione e delle telecomunicazioni, che ha offerto da un lato nuove opportunità di sviluppo di strumenti per il controllo dei processi economici, e dall’altro il terreno per un vero e proprio nuovo settore economico, quello delle TelCo e della televisione in tutte le sue forme, due settori ormai non più facilmente distinguibili (vedi i casi di TIM vision e SKY Broadband/SKY TV).

La storia di questo settore, tuttavia, oltre ad essere una storia di impetuoso sviluppo tecnologico e di intreccio con nuovi processi economici, è anche e soprattutto la storia di una serie ininterrotta di abusi, pratiche commerciali scorrette, raggiri e furtarelli vari ai danni dei consumatori, e dei tentativi delle antitrust e delle AGCM di tutto il mondo per contrastarli.

Trovare notizie di vicende simili è fin troppo facile, basta scrivere su un qualsiasi browser “pratiche commerciali scorrette” o “truffa” più il nome di un’azienda del settore: si possono trovare tutti i casi finiti nel mirino delle autorità – e dunque anche capire che sono molte le volte che le autorità hanno lasciato correre.

Ci troviamo, insomma, di fronte a un intero settore economico che nello sviluppo tecnologico sublima una serie di pratiche banditesche e squallidamente bottegaie.

Questo ci riporta a un tema centrale del capitalismo contemporaneo. Se infatti rimangono la centralità dell’accumulazione di plusvalore basata sullo sfruttamento del lavoro vivo e quella dell’accumulazione primitiva di mezzi di produzione basata sugli espropri, i pignoramenti, il land grabbing etc., dobbiamo riconoscere che interi settori economici non potrebbero sopravvivere senza questi piccoli e grandi abusi che il geografo marxista David Harvey classifica nel processo di accumulazione per spoliazione.

Ossia quell’accumulazione che riguarda “il valore che è già stato creato e distribuito sotto capitale, ma che è ridistribuito dalla massa della popolazione per aumentare l’enorme ricchezza all’interno delle grandi aziende” (D. Harvey, Cronache anticapitaliste, ed. Feltrinelli, p. 145).

Fa rabbrividire da questo punto di vista l’arretratezza della scienza mainstream della politica economica, che tematizza la spoliazione come una specie di generico “fatto da gestire” secondo due opzioni: la rule-based market economy e le politiche discrezionali dello Stato. Un modo vetusto e regressivo di vedere la politica economica che salva il capitalismo dalla condanna della sua natura intrinsecamente, e non accidentalmente, criminale.

L’antisocialità delle piattaforme

Può sembrare un tema scontato e secondario ma non lo è. Il calcio è uno sport particolare, grazie alle sue regole semplici ed eleganti è riuscito a diventare una delle più riuscite forme di drammatizzazione della vita mai create dall’uomo, al punto che Pasolini arrivò a pensare che ci si trovasse di fronte a uno spettacolo in grado di assorbire e riproporre in tempi moderni le funzioni della tragedia greca; è quindi al contempo una forma d’arte e un fatto sociale totale.

La ritualità della partita di domenica alle 15, che comportava che per un paio d’ore milioni di persone fossero all’improvviso irreperibili al telefono perché in casa o allo stadio a guardare la partita, era appunto un esito rituale che ha contribuito a rendere il calcio quella passione che per molti è, e che DAZN, appropriandosene, la sfrutterà al contempo minandone i presupposti, qualora venisse imposto il formato dello spezzatino; allontanerà, inesorabilmente sempre più appassionati.

Sviluppo tecnologico e (sviluppo) diseguale

Proprio per quanto detto, non possiamo non renderci conto che quella di DAZN sarà non più che una fase, che si esaurirà, ma non sappiamo se prima o dopo aver esaurito il calcio. Tuttavia, non è solo in questo che si manifesta la cortezza di vedute dei dirigenti aziendali e politici. Allarghiamo un po’ lo sguardo.

All’origine dello spezzettamento finale, come abbiamo detto, c’è una situazione di insufficienza strutturale di DAZN, cui l’azienda sopperirà (come sembra) scaricando sui clienti il problema di adattarsi alla mutata situazione, con la complicità dei presidenti delle squadre.

Ma la carenza infrastrutturale di un player relativamente giovane, che si inserisce in un oligopolio con costi fissi irrecuperabili tutto sommato bassi, ma alti costi marginali di capacity expansion, va letta nei suoi legami col contesto globale di digital divide.

La situazione infatti è un po’ complessa, anche alla luce della spinta che i consorzi dei fornitori di connessione internet sembra stiano portando avanti per dismettere le reti a protocollo xDSL (o comunque con fibra lontana da casa, ad alta intensità di rame) per passare tutta la rete fissa domestica a protocolli FTTH/C ad alta intensità di fibra ottica. Proviamo a fornire qualche generico barlume.

Da un lato ci sono i paesi cosiddetti in via di sviluppo. Questi scontano spesso una forte carenza quantitativa di tecnologia internet via rete fissa: perché hanno avuto accesso in ritardo alle tecnologie di connessione, perché essendo ancora poveri non sono in grado di esprimere una forte domanda pagante in grado di remunerare investimenti in tal senso, e infine perché in quei paesi infilare persone con reddito sicuro dentro una casa da connettere a internet è un problema molto serio.

Ma proprio in quanto “in ritardo”, questi paesi posseggono una rete qualitativamente spesso buona (talvolta di tipo quasi esclusivamente fibra o coassiale misto-rame, come in diverse repubbliche dell’ex blocco socialista), poiché hanno avuto accesso alle reti tecnologicamente più avanzate soprattutto quando esse sono diventate più economiche.

Dall’altro lato i paesi cosiddetti sviluppati si trovano spesso nella situazione opposta, con una maggiore diffusione quantitativa della rete internet, ma che al contempo scontano la compresenza di impianti qualitativamente al passo coi tempi (reti via fibra con protocollo FTTH/C) e impianti obsoleti che è molto costoso sostituire (reti via rame con protocollo xDSL).

In altre parole, nel digital divide globale c’è chi ha tanto pane ma non ha tutti i denti buoni, e chi ha pochi denti, tutti buoni, ma non ha il pane.

Per concludere, vediamo come lo sviluppo diseguale possa, almeno occasionalmente, limitare il connubio di sviluppo tecnologico e diversificazione produttiva, volano fondamentale di accumulazione capitalista.

Un’azienda con vent’anni di storia come Netflix ha potuto sviluppare una rete interna di server in grado di superare efficacemente il collo di bottiglia esterno dell’architettura funzionale delle reti fisse (non si ricordano grossi problemi per Netflix durante la pandemia, per dire), mentre un’azienda giovane come DAZN si trova a dover combattere con maggiori perdite questo collo di bottiglia.

Di fronte alla ristrutturazione capitalistica che affronteremo nei prossimi anni non dobbiamo perdere di vista gli esiti possibili di questa contraddizione, che rischiano di divaricare la posizione di aziende “innovative” ancorché già consolidate rispetto a quelle giovani che avranno più fatica a intestarsi l’innovazione (non mi sorprenderebbe se un’azienda come DAZN in un futuro prossimo fosse acquisita), penalizzando la competitività del sistema. Il tutto nel contesto di imponenti costi di adeguamento infrastrutturale a carico dei governi, con un prevedibile ruolo rafforzato del settore finanziario privato.

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