“Con l’economia capitalistica non si può salvare l’ambiente. E’ impossibile, perché l’economia capitalistica, per sua natura, tende al raggiungimento del massimo profitto, e per raggiungere il massimo profitto, la rendita, gli incrementi di produttività, attraverso la continua ricerca dell’innovazione dei prodotti da parte delle imprese, questo deve creare sempre nuovi bisogni indotti, quindi una corsa frenetica al consumismo. E questo è incompatibile con una economia che tenga conto delle necessità umane, ambientali e sociali per il benessere diffuso”.
Lo afferma Luciano Vasapollo, ordinario di economia alla Sapienza e membro della segreteria della Rete dei comunisti, una militanza che non scalfisce ma esalta la sua elaborazione scientifica, in particolare per la sua capacità di comprendere contraddizioni e difficoltà della classe lavoratrice alla quale il professore fa costante riferimento.
Dell’insanabile contraddizione tra capitalismo e salvaguardia dell’ambiente, Vasapollo ha parlato con FarodiRoma nella prima di una serie di interviste sui temi più attuali della politica economica.
Professore è in corso una trattativa, che possiamo definire pesante, con la Confindustria da parte dei sindacati. Sullo sfondo di tale confronto c’è una distruzione ambientale che sembra essere considerata inevitabile dalle parti. E’ una situazione ormai perduta?
La distruzione ad opera, diciamo così, del capitale, è una distruzione di ogni forma di legame con la natura, con l’uomo e con le compatibilità sociali.
Per molti si tratta di scegliere tra tre variabili: la distruzione dell’uomo, del lavoro, il conflitto capitale lavoro; la distruzione dell’ambiente e della natura; e la distruzione delle compatibilità sociali.
Infatti quando si parla, nei giornali, della ripresa dei licenziamenti, si parla allo stesso tempo anche di modifica e rettifica degli ammortizzatori sociali, cioè significa che si rimette in discussione un altro pezzo di welfare e di Stato sociale.
Quella che abbiamo chiamato globalizzazione finanziaria o globalizzazione neoliberista, realizza produzioni che vanno sempre più verso una fase di annientamento di ogni spazio vitale, cioè in una fase, diciamo così, in cui ogni forma di spazio vitale accresce anche l’alienazione stessa del lavoro umano.
Cresce la precarietà del lavoro, che viene ad essere spesso sempre più sostituito con macchinari sofisticati e che e che sempre più spesso per ingordigia dei padroni per i profitti uccidono (come è accaduto alla ragazza lavoratrice di Prato e alle migliaia di lavoratori che ogni anno sono vittime delle stragi volute e impunite sui posti di lavoro).
Intanto assistiamo a una completa irresponsabile devastazione dell’ambiente, per dare spazio e modo alle produzioni di moltiplicarsi, anche offrendo opportunità per costruire abitazioni e servizi (in genere privati) a spese di un patrimonio, l’ambiente, che è un patrimonio sociale collettivo, perché noi nasciamo con questo patrimonio che si chiama “madre terra e pianeta terra”.
Si colpisce la qualità della vita mentre accresce l’accumulazione del capitale, però si distrugge anche, attraverso gli incrementi dei ritmi, gli incrementi della produttività, la stessa percezione della vita dell’uomo, perché la produzione diventa rincorsa dei profitti, senza migliorare i salari.
Ma qual è la situazione della classe lavoratrice nell’Italia di oggi?
Non aumenta l’occupazione, non diminuisce l’orario di lavoro e non si realizza quindi il tempo libero. Ma l’uomo ha bisogno dell’ozio creativo, l’ozio non vuol dire non fare niente, l’ozio creativo del tempo liberato da dedicare a se stesso: al fidanzato, alla fidanzata, alla famiglia, ai musei, al giardino zoologico, al mare, al lago, alla montagna. Abbiamo bisogno del nostro tempo libero.
Nei centri ormai imperialisti, nelle cittadelle dell’impero (cittadelle poi che sono le metropoli dell’impero), rimane alto il livello della produzione, rimane alto il potere finanziario, ma lo sviluppo scientifico e tecnologico e la progettazione vanno sempre e soltanto a vantaggio non dei bisogni sociali, ma dei bisogni del capitale e dei profitti; la commercializzazione diventa ormai momento della esplosione di plusvalore, sia la commercializzazione ma anche, diciamo così, la dimensione della distribuzione. Pensate a questi grandi mostri sacri come “e-bay” oppure “Amazon”.
Il potere contrattuale dei lavoratori diminuisce, sempre più: la classe operaia e la classe lavoratrice in generale è impoverita. Questo, diciamo, è quello che, con un nome che a me non piace, però lo usiamo, chiamiamo la dimensione della società post-fordista.
Questa è una realtà che sembra piuttosto diffusa: si può dire che in tutto il mondo occidentale la classe operaia e in genere i lavoratori diminuiscono il loro peso a vantaggio degli investitori?
Questa dimensione riguarda prevalentemente i paesi del nord, dove il nord non è solo geografico, è un nord economico, cioè: il Nord America, l’Europa, il Giappone, qualche altro paese a capitalismo maturo; l’internazionalizzazione dei profitti, attraverso gli investimenti, attraverso la finanziarizzazione dell’economia, generano un processo di concentrazione dei monopoli, quello che Lenin ha identificato come fase dell’imperialismo, concentrazione e centralizzazione.
Il fordismo viene sostituito da questo (quando si mettono i “post” vuol dire che ancora non sappiamo che dire), però viene sostituito da questo cosiddetto “post fordismo” e anche il keynesismo, mi sembra che sia superato, è cambiato, è diventato sempre più un keynesismo del privato, un keynesismo militare (purtroppo si stanno rigirando nella tomba sia Keynes sia Caffè), ovvero in un’economia di guerra per sostenere i processi di ristrutturazione e di accumulazione del capitale.
Un tentativo, quindi, di risolvere il conflitto capitale-ambiente e la crisi sistematica ormai quarantennale, che non si è risolta nemmeno con le mille forme della crescita quantitativa, quello che io nei libri chiamo “sviluppismo capitalista”.
In questo contesto la giustizia sociale sembra un miraggio, ma potrebbe essere a rischio anche la pace fra le nazioni?
La realtà che ci circonda, è una realtà in conflitto, dove i conflitti economici e politici vengono nascosti da bugie. Guerre etniche, si dice, guerre religiose, guerre per la democrazia, per la cosiddetta uguaglianza che si doveva creare con l’unipolarismo, con la globalizzazione, però in effetti che cosa è successo?
E’ successo che il mondo sta sempre più in mano di pochi ricchi e di pochi paesi capitalistici, e quella che loro chiamavano “globalizzazione”, “la nostra area l’ha chiamata “competizione globale” e poi conflitto inter-imperialistico fra blocchi che si esplicita nel conflitto capitale-lavoro e quindi arriva a distruggere la natura nella dimensione della sfida egemonica per il dominio sulle risorse della madre terra.
Dunque è inevitabile una ricaduta negativa dello sviluppo industriale sull’ambiente?
Questa competizione (bisogna avere il coraggio di dirlo a voce alta) è elemento di distruzione della natura.
Il rapporto, dunque, tra modo di produzione e distribuzione e l’impatto con il sociale e con la natura, è sempre più condizionato da una relazione di coercizione, una relazione, diciamo così, tra il capitale transnazionale (che oggi chiamiamo le multinazionali) la borghesia transnazionale e, diciamo così, aree di influenza diverse, cioè nuove forme di colonialismo, di neo-colonialismo.
In effetti le nuove economie nazionali, si collocano ormai in funzione dell’allargamento e della ridefinizione dei poli geoeconomici internazionali. Questa la chiamiamo “nuova divisione internazionale del lavoro”.
Professore, lei si rifà agli ideali marxisti che vengono oggi considerati da molti come obsoleti, ma in proposito cosa sosteneva Marx?
Marx sosteneva – e a me pare una osservazione del tutto attuale – che le persone sono dipendenti dalle condizioni materiali in cui vivono. E in effetti, anche oggi il rapporto di un giovane con la famiglia, col cinema, con gli amici dipende dalle condizioni materiali in cui si vive.
Allora si potrebbe dire: e i sentimenti? e l’emotività? ma anche i sentimenti e l’emotività sono relazionati nella vita concreta, materiale. Quindi le condizioni materiali della produzione, struttura la chiama Marx, cioè l’economia è la struttura della società e, ci dice Marx, è fondamentalmente determinata da tre fattori: la forza lavoro, quindi il lavoro delle braccia applicate alla produzione; lo spazio.
Lo spazio che cosa è? L’elemento locale, la dimensione locale. Locale può significare il paesino o può significare l’impero; e la terza dimensione sono le infrastrutture, quella che Marx chiama “sovrastruttura”.
Le infrastrutture possono essere tecniche, cioè per esempio, le strade, gli ospedali, eccetera, ma, in termini generali Marx intende come sovrastrutture-infrastrutture le condizioni generali esterne. E in senso politico economico
Le condizioni generali esterne, sono la natura e l’ambiente nell’accezione generale di ciò che in senso capitalistico viene determinato e sfruttato a fini economici. L’ambiente può essere modificato dall’uomo, può essere messo a produzione, però l’infrastruttura o meglio identificata come sovrastruttura, è attore ambientale e natura.
Una riorganizzazione della società, quindi, in qualsiasi momento storico, che tiene conto del problema ecologico, non può coesistere con l’economia capitalistica.
*Il Faro di Roma
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