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Il governo accolla all’Inps anche la previdenza dei giornalisti, in rosso ovviamente

Il governo nella legge di bilancio, ha deciso l’incorporazione dell’Inpgi (la  cassa previdenziale dei giornalisti) nell’Inps a partire dal 1 luglio 2022,  ma solo per la parte che gestisce i trattamenti obbligatori.

Resta fuori da questo passaggio l’Inpgi 2, ovvero la gestione separata, alla quale sono iscritti i pubblicisti e i giornalisti titolari di rapporto autonomo o precario. Insomma hanno messo al riparo la pensione per i giornalisti più garantiti.

All’articolo del provvedimento relativo a “Norme a garanzia delle prestazioni previdenziali a favore dei giornalisti“, viene specificato che fino al 30 giugno 2022 la pensione dei giornalisti dipendenti verrà determinata come segue.

Gli importi maturati fino a quella data seguiranno i criteri Inpgi: l’Istituto di previdenza dei giornalisti contava sul più vantaggioso sistema retributivo fino al 2017 (gli altri lavoratori invece lo hanno perso nel 2012 con la Legge Fornero, ndr), poi oltre quella data anche loro sono stati adeguati a quello contributivo.

Dal luglio 2022 in poi, gli importi di pensione che verranno maturati verranno calcolati invece secondo le regole dell’Inps. Unica eccezione per coloro che hanno versato contributi per la prima volta prima del 1996: a loro non si applicherà il massimale contributivo che viene ora applicato dall’Inps a tutti i redditi superiori ai 100 mila euro.

Per i giornalisti e pubblicisti registrati come lavoratori autonomi, (insomma quelli messi peggio e più precari, ndr), “l’Inpgi continuerà a esistere come cassa privata” e per far questo  dovrà varare la riforma dello Statuto entro la metà  del  2022.

Invece, per i giornalisti che percepiscono un’indennità di cassa integrazione, le regole dell’Inpgi varranno fino al 2023. Poi scatterà la Naspi, come previsto dall’Inps per tutti gli altri lavoratori dipendenti.

Quindi l’Inps si accollerà l’Inpgi con tutto il cucuzzaro, ossia anche i conti in rosso per 242,2 milioni di euro, in peggioramento di 70milioni e 805mila euro rispetto al 2019.

Anche la gestione patrimoniale (tra cui figurano gli immobili dell’Inpgi), seppur chiudendo con un risultato positivo di 6,599 milioni di euro, ha registrato una diminuzione di 39,587 milioni rispetto all’anno precedente per effetto della riduzione degli utili del portafoglio mobiliare.

A giugno l’Inpgi rischiava il commissariamento, ma il governo è intervenuto ed ha fatto la scelta dei suoi predecessori: accollare all’Inps un altro ente previdenziale in perdita, e magari tra un anno alimentare gli starnazzamenti perché “l’Inps ha i conti in rosso” e “non ci sono i soldi” per pensioni dignitose.

Era già accaduto nel  gennaio 2003, quando l’ente previdenziale dei dirigenti privati e dell’industria, l’Inpdai, secondo i dati del bilancio consuntivo per il 2001, portò “in dote” all’Inps un pesante disavanzo economico di 1.479.205 milioni di lire (circa 764 mila euro di oggi), conseguente, quasi per intero, al forte sbilancio della gestione previdenziale a causa di prestazioni previdenziali per i dirigenti industriali in pensione, assai più favorevoli, soprattutto dopo aver versato una contribuzione di misura inferiore a quella dovuta.

Una sentenza della Cassazione del 2018 ha poi decretato che i dirigenti d’azienda possono pretendere dall’Inps la pensione alle condizioni più favorevoli previste dal disciolto regime Inpdai e non a quello più ridotto dell’Inps.

Occorre poi rammentare che il governo Monti nel 2012 scaricò sull’Inps anche l’Inpdap, ossia l’Istituto di Previdenza dei Dipendenti Pubblici, che aveva nella pancia un disavanzo patrimoniale  al primo gennaio 2012 di 10 miliardi e 269 milioni. Lo stesso provvedimento caricava all’Inps anche l’Enpals (lavoratori dello spettacolo).

Il disavanzo era stato causato della continua riduzione dei dipendenti pubblici nel corso degli anni, che aveva ridotto le entrate, mentre le spese per pensioni continuavano ad aumentare. 

In secondo luogo perché, fino al 1995, le amministrazioni centrali dello Stato non versavano i contributi alla Ctps, la Cassa dei trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato, che era una delle 10 casse fuse nell’Inpdap nel 1996, proprio perché le normative europee richiedevano la creazione di un istituto con un bilancio trasparente.

Ma anche dopo il ’96 le amministrazioni dello Stato hanno versato «solo la quota della contribuzione a carico del lavoratore (8,75%, ndr ) e non la quota a loro carico», pari al 24,2%. In pratica il datore di lavoro “Stato” non versava la sua quota di contributi.

Adesso l’Inps dovrà accollarsi anche l’Inpgi. La nota diffusa ad aprile dal Collegio sindacale dell’Inpgi, parlava di un ulteriore assottigliamento della cosiddetta “riserva legale IVS”, ovvero la riserva tecnica di liquidità che garantisce il pagamento delle pensioni e che per legge deve assicurare almeno 5 anni di erogazione.

Lo squilibrio 2020 – segnala l’organismo – determina un deterioramento della riserva legale IVS che rimane al di sopra dell’importo delle 5 annualità di pensione come previsto dalla normativa, ma con una ulteriore erosione di tale margine” (processo questo che è in atto dal 2016) e una riduzione dell’indice di copertura delle pensioni correnti che passa da 2,58 del 2019 a 2,09 del 2020.

L’Inps si accolla dunque l’ennesimo ente previdenziale in rosso, con numeri calanti di lavoratori contribuenti e un livello di prestazioni pensionistiche che fanno invidia al 90% dei lavoratori dipendenti.

E poi, quando vedremo dirigenti statali, dirigenti d’azienda e giornalisti starnazzare contro l’Inps, il Reddito di cittadinanza, l’insostenibile spesa pensionistica etc. etc. che cosa dovremmo fare?

No comment, questo è un paese che teme più le parole che i fatti.

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1 Commento


  • Ginco

    È ovviamente, volendo andare in pensione almeno dignitosamente, poi ci verranno a ricordare del nostro egoismo e che stiamo togliendo futuro ai giovani!

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