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Tridico: in Italia manca un’occupazione per dieci milioni di lavoratori

In occasione della pubblicazione da parte dell’Inps sui conti relativi al Reddito di Cittadinanza, il Presidente dell’istituto Pasquale Tridico ai microfoni di Radio 24 ha affermato che i problemi di sostenibilità dell’ente sono soprattutto dovuti al basso tasso di occupazione nel mercato del lavoro italiano.

Notiamo una forte crescita delle entrate contributive, c’è una tendenza positiva, il 7% in più”, ha detto Tridico, “ma restano fragilità come il tasso di inattività che è molto alto”.

In Italia mancano circa dieci milioni di lavoratori tra inattivi, scoraggiati, donne e giovani, che non lavorano. Se li avessimo avremmo una sostenibilità del sistema pensionistico diverso. Queste persone mancano soprattutto nel Sud”, ha aggiunto il presidente dell’Inps.

Parole molto importanti da parte di Tridico, non nuovo a sortite nel dibattito politico che si pongono in generale contrapposizione con quanto invece si afferma tra le fila dei maggiori partiti, da destra al centro-sinistra.

Nella vulgata starnazzata dai maggiori organi di informazione infatti l’occupazione sarebbe lì fuori ad aspettare lavoratori e lavoratrici che però sarebbero o troppo pigri per alzarsi dal divano, o poco qualificati per le mansioni richieste, o troppo tutelati da strumenti welfaristici come il Reddito di Cittadinanza (quando non troppo impegnati a truffare lo Stato, i “furbetti”…).

Da qui la necessità di adeguare la vita lavorativa all’allungamento della vita media, previo il rischio di insostenibilità finanziaria degli enti preposti, fattore che farà passare alla storia il capitalismo come l’unico sistema sociale in cui “vivere più a lungo” corrisponde a una cattiva notizia per la società.

La realtà invece, come abbiamo scritto altre volte, è che a mancare in Italia non sono i lavoratori, ma proprio il lavoro, condizione che si traduce in una pletora di donne e uomini che non figurano tra le statistiche sulla disoccupazione perché escono dalle “forze di lavoro attive” (chi ha un lavoro, gli occupati, e chi cerca attivamente un lavoro, i disoccupati) per finire in quelle inattive, spesso definiti come “scoraggiati”.

Ma la sostanza non cambia al cambiare dell’etichetta, perché si tratta comunque di una significativa fetta di popolazione che non ha accesso a un reddito mediante il lavoro – che in teoria sarebbe pure il primo principio enunciato dalla Costituzione –, o almeno non in forma regolare, con tutte le conseguenze per l’accesso ai diritti e alle forme di tutela del caso.

In numeri, nel 2019 – quindi prima della pandemia, da cui non abbiamo ancora recuperato – il rapporto tra la forza lavoro attiva (occupati più disoccupati) e il totale degli inattivi era intorno all’unità: circa 26 milioni di attivi, di cui 3 milioni disoccupati, di contro ad altri 26 milioni (numero più numero meno) di inattivi.

Una mannaia per qualsiasi sistema economico, che il processo di integrazione europeo non ha fatto altro che cristallizzare: sempre Tridico infatti fa notare che “il tasso di occupazione era intorno al 58% della popolazione in età da lavoro nei primi anni ’90, e tale è ancora oggi” (59% in media nel 2019).

In mezzo si è assistito a una profondissima flessibilizzazione del rapporto di lavoro e dell’occupazione, indicata a Maastricht nel 1992 e sistematizzata dalla Commissione europea col libro bianco su Crescita, competitività, occupazione nel 1994, a colpi di legge “antioperaie”, come il pacchetto Treu, la legge Biagi, il Jobs Act, passando per la riforma Fornero o il cosiddetto articolo 8 dell’ultimo governo Berlusconi.

Il fallimento di trent’anni di neoliberismo è sempre più sotto gli occhi di tutti e bene fa il Presidente dell’Inps ad incalzare anche sul salario minimo: “è evidente che ci vuole. Tutta la comunità scientifica, giuristi ed economisti, concorda sul fatto che il binomio contrattazione sindacale e salario minimo sia possibile, l’uno non esclude l’altro”.

L’affermazione segue la contrarietà da parte dei maggiori sindacati concertativi all’istituzione del salario minimo per timore di perdere la posizione di privilegio nella contrattazione che si sono guadagnati a suon di regali fatti alla classe padronale.

Già, perché Cgil Cisl e Uil hanno delle responsabilità storiche enormi nell’arretramento a cui hanno costretto la forza lavoro del paese, se non si vuole risalire alla svolta dell’Eur, almeno fin da quel 31 luglio 1992 in cui firmarono l’abrogazione della scala mobile, viatico per l’Italia alla firma degli Trattato di Maastricht, proprio mentre tutto il paese si apprestava ad andare in vacanza ad agosto…

Ma un tornante storico si sta svolgendo in questi mesi, la “questione operaia” riacquista vigore in un paese in cui i salari sono oggi sono inferiori in termini reali del 2% rispetto al 1991, operai ed operaie sono tornati a scioperare in forze, sia l’11 ottobre che il 16 dicembre.

Lo spiraglio per una  nuova stagione di lotte sembra aprirsi all’orizzonte.

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