Con l’entrata nella decina centrale di agosto, Il Sole 24 Ore sta presentando una “inchiesta sul lavoro” spalmata su più puntate per presentare ai lettori i settori economici dove, a dispetto di una significativa domanda di lavoro, scarseggerebbe l’offerta di personale.
L’assist viene offerto dal periodico “Bollettino Excelsior” realizzato da Unioncamere in collaborazione con l’Anpal, dove si afferma che entro l’autunno le imprese italiane sarebbero pronte ad aprire 1,2 milioni di posizioni lavorative.
L’impianto dell’inchiesta, giunta, al momento in cui scriviamo, la terza puntata, si snoda lungo la seguente traccia: il lavoro c’è, ma a mancare sono i lavoratori e le lavoratrici.
Motivi? Due, principalmente: il reddito di cittadinanza (rdc) “distorce i meccanismi di mercato”, visto che i lavoratori lo preferiscono all’occupazione; la forza-lavoro “non è in grado di offrire le competenze richieste dalle imprese”.
Se Il Sole avesse ragione, in termini di politiche economiche si dovrebbe abolire il rdc, piegare ancora di più la formazione e la ricerca pubblica alle necessità delle imprese per formare forza-lavoro adeguata al sistema produttivo (o magari finanziare maggiormente le istituzioni private che “garantiscono” questa formazione) e rendere più flessibile i processi di entrata nel mercato del lavoro, con ampliamento della platea e prolungamento temporale degli istituti che, con la scusa di preparare il lavoratore alla mansione, sottopagano il lavoro (come apprendistato, stage, tirocini ecc).
Che questo siano alcune delle riforme innestate sul diritto del lavoro nell’ultimo trentennio non c’è alcun dubbio, almeno a partire dal Pacchetto Treu del 1997 fino ai suoi vari “superamenti” (legge Biagi, art. 8 del Berlusconi IV, legge Fornero, Jobs Act), in ossequio alle indicazioni fornite dalla Commissione europea con il Libro bianco del 1994 Crescita competitività occupazione.
Che questo non abbia funzionato è altrettanto evidente, come emerge dalle performance del nostro mercato del lavoro nei dati qui riportati nel confronto col resto dell’Ue (Italia in rosso, in arancione il resto dei Pigs…) per il tasso di occupazione (15-64 anni) sul totale della popolazione ad aprile 2021 (Q1).
Ma alla base dell’inchiesta del quotidiano di Confindustria non c’è solo la ripetizione di fallimentari dettami di politica economica basati sull’ideologia neoliberista, ma c’è di più: si fonda sulla menzogna palese del mancato match (o più prosaicamente, incontro) tra domanda e offerta di lavoro come fattore principale della ristagnante condizione economica in cui versa il paese. Come a dire, la forza-lavoro non è all’altezza della sfida posta dal progresso.
La realtà, invece, è ben diversa ed è stata segnalata l’8 agosto su questo giornale (poi ripresa in prima pagina da Il fatto quotidiano due giorni dopo) semplicemente spiegando le statistiche dell’Istat: di domanda lavoro ce n’è ben poca in giro, nel secondo trimestre appena l’1,2% in più di quanto già impiegato nel territorio nazionale.
A questo punto si potrebbe controbattere citando il Bollettino di Unioncamere, ma – oltre al fatto che si tratta solo di previsioni e, come tali, andranno verificate – con un minimo di approfondimento oltre la propaganda da “sbatti il numero in prima pagina”, si scopre che non c’è molto oro nel ritrito “milione di posti lavoro” che sarebbe all’orizzonte.
In primo luogo, poco meno della metà di questi posti sono quelli persi a partire dal primo lockdown e non ancora recuperati – senza contare perciò l’attuale sblocco dei licenziamenti, e alla faccia dello stesso –, quindi non corrispondono a nessuna “creazione netta” di ricchezza rispetto alla già stagnante condizione pre-pandemica.
In secondo luogo, i settori maggiormente in cerca di manodopera sarebbero turismo, trasporti, logistica, costruzioni e manifattura (tra siderurgia, meccanica ed elettronica, tessile, farmaceutica ecc.). E sono, in termini generali, le mansioni che hanno subìto maggiormente la riduzione di diritti, tutele e retribuzioni nel corso di questi decenni, spalancando le porta al lavoro nero, in appalto, discontinuo, malpagato, insicuro.
Una situazione ben diversa dalla “ripresa” con cui si magnifica il lavoro fin qui svolto dall’esecutivo Draghi I, e infatti anche Il Sole non può che tentare di indorare una condizione ben più drammatica.
“L’Italia in cerca di 17mila autisti”, ma gli italiani non sarebbero attratti da questo mestiere, per cui bisognerebbe intervenire nel “decreto flussi” per importare quote specifiche di manodopera non residente in Italia. Avete idea che cosa significhi scarrozzare su e giù un tir per l’Europa, con i ritmi imposti dal commercio internazionale e al livello dei salari nostrani? Salvo poi scoprire che le imprese in cerca di questi autisti non intendono farsi carico del costo della relativa patente (circa 6.000 euro a testa)…
Oppure, “Industria della conserva senza manodopera, va a vuoto il 30% delle ricerche stagionali”. Avete idea di cosa significhi lavorare nella raccolta, trasporto, trasformazione e consegna dell’industria alimentare, per di più come lavoratore stagionale, a 25/30 euro per 10/12 ore di lavoro giornaliere?
E quali sarebbero i corsi di laurea non frequentati dagli studenti e dalle studentesse italiane che preparerebbero a queste mansioni? “L’industria farmaceutica necessita di 30.000 assunzioni”. Perché allora si mantiene il numero chiuso nelle facoltà che preparano a quelle specializzazioni?
Questo è ciò che Confindustria prova a vendere per scardinare le residue tutele conquistate dal movimento operaio durante il XX secolo, per abolire il rdc, importare immigrati da sfruttare, “allungare l’orario di lavoro degli autotrasportatori” (edizione di giovedì 12 agosto, p.13), ridurre il cuneo fiscale per abbassare il costo del lavoro, e tanto altro.
Una classe imprenditoriale meschina e omicida, che macina profitti basandosi sul pluslavoro assoluto (lavorare di più per meno salario) e sulle varie forme di sostegno pubblico (tra sgravi, decontribuzioni, sussidi ecc.), che riduce da anni gli investimenti produttivi virando il risparmio sulla speculazione finanziaria, che raschia il barile dello sfruttamento, e, quando questo tocca il fondo, delocalizza la produzione.
Questo, in realtà, esprime l’inchiesta sul lavoro che non c’è del quotidiano della Confindustria. O forse bisognerebbe chiamarla “inchiesta sullo sfruttamento”.
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